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Unità: Far studiare i ragazzi conviene. Anche allo Stato

Marina Boscaino

07/08/2007
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l'Unità

Far studiare i ragazzi è vantaggioso per lo Stato; perché i costi sociali che derivano dalla mancata istruzione sono estremamente onerosi e protratti nel tempo: è questo il risultato di uno studio della Banca d’Italia di qualche tempo fa. Un’evidenza confermata anche da una ricerca della London School of Economics, «The cost of Exclusion» (Il costo dell’esclusione) che - nel tentativo di valutare gli effetti economici della insufficiente scolarizzazione dei giovani britannici - ha addirittura individuato una inedita categoria sociale; una categoria di pericolosa marginalità, che con la sua stessa esistenza evidenzia luoghi erronei e disfunzioni imbarazzanti del mondo globalizzato e - in esso - della parte presunta più civile, democratica, economicamente avanzata, l’Occidente. Il «fenomeno» - dietro il quale, concretamente, sono stati riconosciuti circa un milione di ragazzi - è stato battezzato per l’occasione con l’acronimo Neets. Si tratta di giovani - dai 16 ai 24 anni - «non in education, employment or training»: giovani, cioè, che non si collocano all’interno del sistema di istruzione, che non lavorano, né che fanno formazione. Giovani fantasmi, si direbbe, in quell’ampia fascia di età frutto di una concezione di adolescenza protratta imposta dai sistemi e dalle organizzazioni delle società, senza connotazione alcuna, senza appartenenza, che conducono una vita di totale e drammatica marginalità e che stanno costruendo - nell’indifferenza - il proprio destino di esclusione. Nel Regno Unito il fenomeno è quantizzato sull’ordine di circa un milione di ragazzi, come si diceva: ma esso investe significativamente proprio la gran parte dei paesi capitalisti con sistemi economici e modelli di sviluppo sociale riconosciuti come moderni e progrediti; il Giappone, ad esempio, gli Stati Uniti; ma anche la Germania e la Francia, sebbene in percentuale minore. Quasi a sottolineare in maniera drammatica il costo in termini di esistenze che l’imperfetto sistema fisiologicamente produce. Ed è proprio sulla questione dei costi - in termini strettamente economici, tuttavia - che la ricerca della London School of Economics, che è stata commissionata dall’associazione “Prince’s Trust”, fondata dal principe Carlo proprio per aiutare i giovani a completare l’istruzione e a trovare una strada nel mondo del lavoro, insiste; perché nel Regno Unito, più che negli altri Paesi, il fenomeno ha assunto dimensioni massicce e minaccia di diffondersi ulteriormente. La questione dei costi è certamente destinata ad aumentare, secondo le stime degli esperti: una generazione come quella dei Neets rappresenta un’insidia socio-economica permanente; un elemento imprevedibile, potenzialmente esplosivo, che incide in maniera più che significativa sulla collettività, in ragione di 6-7 miliardi di euro: tale il costo di quella marginalità, dei comportamenti di questi ragazzi, dell’esclusione sociale. Che si traducono automaticamente in spese aggiuntive per il sistema sanitario nazionale e in aumento della criminalità minorile, che costa allo Stato un esborso di 1 miliardo di sterline l’anno. Per non parlare delle perdite a carico della collettività in termini di educazione mancata e dei costi di una futura assistenza a chi andrà ad alimentare il numero dei disoccupati. Con l’ulteriore valutazione di quanto sia difficoltoso trasformare in permanente l’aiuto momentaneo che si fornisce a questi ragazzi. La ricerca della London School of Economics parte proprio dall’analisi dei costi che la generazione dei Neets impone alla società inglese; e a questo tipo di valutazione rimane fortemente ancorata, non fornendo cenni particolarmente illuminanti sull’identikit socio-culturale di questi ragazzi. Ciò che è certo è, però, che in questo milione di ragazzi la grande maggioranza è rappresentata non - come ci si aspetterebbe - dai figli degli immigrati; ma dalla parte debole dei cittadini britannici originari. Questo dato spinge a riflettere su come, all’origine della rinuncia di questa generazione, non ci siano solo e tanto condizioni di marginalità economica o backgroud non integrati; ma la mancanza di idealità e prospettive di emancipazione sociale che, per quanto illusorie, rimangono tra gli immigrati; mentre sembrano essere definitivamente scomparse tra le classi deboli - ma non di recente immigrazione - della società britannica. Prospettive di emancipazione sociale definitivamente scalzate dall’ondata massificante e acritica del consumo e della fruizione inconsapevole e necessaria di tecnologie che - utilizzate come sono da questi ragazzi - perdono il loro senso e la loro valenza di democrazia e liberazione e li confinano nel ghetto dell’omologazione inconsapevole. Un punto di vista pur così parziale ed esplicitamente finalizzato alla questione dei costi rappresenta comunque uno stimolo per avviare un ragionamento che riguarda il nostro Paese.
In Italia da anni si chiede l’istituzione di un’Anagrafe scolastica a livello nazionale, in grado di monitorare e analizzare in modo globale e sistematico le condizioni di scolarizzazione degli studenti. In grado di quantizzare in maniera precisa l’entità di un fenomeno inquietante e drammatico come quello della dispersione, ancora definito con numeri molto incerti e stime altrettanto approssimative, fortemente orientate da alcune anagrafi regionali che funzionano in maniera soddisfacente, ma che certamente non possono e non devono sostituire nel monitoraggio l’intervento di un organismo nazionale. In questo settore tutto - a cominciare dalla confusione lessicale, che spinge a individuare sotto la voce “dispersione” una serie di fenomeni correlati (abbandono, ritardo, dissipazione culturale) - rende il panorama pericolosamente indeterminato, poco chiaro. Si pensi, ma è solo un esempio, che - considerando gli strumenti attualmente a disposizione - non siamo in grado di definire quanti bambini non si iscrivono affatto alla scuola elementare; salvo scoprire periodicamente, dalle cronache locali, che il fenomeno è molto più diffuso di quanto si pensi. E ogni tentativo di affrontare la questione in termini esaustivi si scontra con la non scientificità dell’incrocio dei dati a disposizione: Istat, Censis, Caritas-Migrantes, rapporti del Ministero dell’Istruzione. A fronte di questo quadro impreciso, che troppo spesso dimentica che dietro ai numeri ci sono bambini e ragazzi reali, che dalla mancata istruzione avranno un danno irreversibile rispetto alle proprie esistenze, l’urgenza di provvedere all’organizzazione di un monitoraggio sistematico della dispersione scolastica attraverso un’Anagrafe scolastica nazionale è sempre più impellente. Tanto più che evidenze come la ricerca della London School of Economics ci inducono ad assumere un capovolgimento di prospettiva, che conferma quanto stabilito dall’assunto iniziale: far studiare i propri cittadini conviene allo Stato. Perché quello studio si tradurrà non solo in un costo inferiore a carico delle casse pubbliche rispetto a quello preventivabile per la mancata educazione; ma perché cultura ed educazione si traducono in cittadinanza, democrazia, consapevolezza, libertà, maggiore felicità. Nonché in innovazione, ricerca, sviluppo, progresso.


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