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Una sfida coraggiosa che dimentica gli studenti

Nei decreti che hanno riscritto le regole del finanziamento universitario, in fondo a una delle tante tabelle che li accompagnano, si incontra un numero cruciale: 6,3 miliardi di euro

05/01/2015
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Il Sole 24 Ore

Gianni Trovati

Nei decreti che hanno riscritto le regole del finanziamento universitario, in fondo a una delle tante tabelle che li accompagnano, si incontra un numero cruciale: 6,3 miliardi di euro. Tanto valgono i costi standard degli atenei statali italiani secondo lo stesso governo che ha scritto il provvedimento. Questa cifra è importante perché la «quota base» dell'assegno statale, cioè quella al netto dei «premi» che dovrebbero incentivare i risultati di ricerca e didattica, si ferma oggi molto prima, e non va oltre i cinque miliardi. Tra le tante sfide implicite dei costi standard, allora, c'è anche un significativo aumento delle risorse statali alle università, uno dei classici investimenti che secondo il premier Matteo Renzi l'Europa dovrebbe trattare con più rispetto. Messa così, nelle condizioni attuali del bilancio pubblico, questa può apparire come una provocazione, ma non è il caso di accantonarla con sufficienza. In questi anni di lavorio sulle regole, a partire dalla riforma Gelmini che è la madre dei costi standard, si è sempre detto che un aumento dei fondi alle università non sarebbe stato opportuno prima di cambiare i criteri di finanziamento, perché altrimenti si sarebbe finito per alimentare l'inefficienza. Seguendo questa impostazione, ora sarebbe tempo di proporne la conseguenza logica: una volta a regime, la quota base dovrebbe coprire tutti i costi ritenuti standard, e quindi considerati "giusti" dal Governo, e gli incentivi misurati sulle performance dovrebbero premiare solo chi davvero lo merita. Per arrivare a questo risultato, però, oltre che al portafoglio statale occorrerebbe mettere mano anche a qualche correttivo perché ancora una volta, sia nei costi standard sia negli incentivi, i professori pesano molto di più degli studenti. Nel primo caso, la sproporzione è evidente. Lo standard è misurato sulla base del «costo tipico» degli ordinari di ogni ateneo, e nelle solite tabelle si scopre che l'ordinario-tipo dell'Orientale di Napoli costa 125.567 euro all'anno, mentre un suo collega della Parthenope, tre chilometri più in là, si ferma a 102.561. Questi 23mila euro che separano la Stazione marittima da Via Duomo si riflettono poi sugli standard per i servizi didattici, i collaboratori, gli specialisti in beni culturali e scienze della formazione primaria e i tutor dei corsi a distanza, tutti calcolati in proporzione sugli stipendi degli ordinari. In un sistema nel quale è ancora l'anzianità a far crescere lo stipendio dei professori, tenere conto di queste differenze serve a non penalizzare chi ha in ruolo ordinari meno giovani, ma gli effetti distorsivi sono evidenti. Nei premi al merito, poi, gli studenti pesano solo per il 10% (121 milioni su 1,2 miliardi), e solo in relazione al fatto che abbiano partecipato a programmi Erasmus: un po' poco per misurare davvero la «qualità della didattica».


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