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Una scuola aperta contro le discriminazioni

di Franco Lorenzoni

13/09/2018
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Internazionale
Questa settimana si apre l’anno scolastico e credo sia importante ricordare che ottant’anni fa in Italia ci furono studenti e insegnanti a cui fu vietato di entrare nella scuola pubblica perché erano ebrei. Era il 1938 ed erano appena entrate in vigore le leggi razziali.

Ci vollero dieci anni perché, nel dicembre del 1948, 192 nazioni approvassero la Dichiarazione universale dei diritti umani che, nell’articolo 7, afferma solennemente: “Tutti sono eguali dinanzi alla legge, tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione, come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione”.

In quei dieci anni si consumò la più grande tragedia della storia dell’umanità, che provocò 68 milioni di morti, di cui 43 milioni di vittime civili.

Ho ascoltato più volte Emma Castelnuovo raccontare la sua espulsione dalla scuola. Entrata in ruolo nel 1938, Castelnuovo non poté metter piede in classe. Ciò che colpiva nelle sue parole era tuttavia il racconto della reazione che la comunità ebraica romana ebbe di fronte all’entrata in vigore di quelle leggi razziste.

Nel giro di tre mesi, organizzarono e fondarono una loro scuola. “La mattina c’erano le lezioni delle primarie e del ginnasio liceo e il pomeriggio, nelle stesse aule, c’erano le lezioni dell’università e delle scuole tecniche”, racconta Giacometta Limentani nel libro Emma Castelnuovo, di Nicoletta Lanciano e Carla Degli Esposti. E aggiunge:

Alla scuola ebraica non si riusciva a immaginare che ci fosse qualcuno che non facesse domande: sarebbe stato un allievo inutile. Invece, chi non era d’accordo con qualcosa che aveva spiegato il professore, alla fine della lezione lo poteva dire e gli era richiesto di tenere lui stesso una lezione, alla sua classe e a quelle vicine, con la sua bibliografia o con una bibliografia che gli suggeriva il professore: insomma era una scuola decisamente di alto profilo.

Molti allievi di quella scuola, esattamente cinque anni dopo, nell’ottobre del 1943, furono rastrellati in via Portico d’Ottavia, nel ghetto di Roma. Sopravvissero solo 16 dei 1.023 deportati nel campo di sterminio di Auschwitz.

L’idea di reagire all’orrore che si annuncia fondando una scuola e proponendosi di farla il più colta, viva ed efficace possibile fa tornare alla mente l’esperienza straordinaria di Janusz Korczak, che mise in atto una delle sperimentazioni educative più radicali e illuminanti del novecento nel ghetto di Varsavia, prima di essere deportato e ucciso con i suoi ragazzi.

Un monito di Primo Levi
Prima di morire, oltre trent’anni fa, Primo Levi lanciava un ammonimento a cui è utile tornare: “C’è ancora un fascismo, non necessariamente identico a quello del passato. C’è un nuovo verbo: non siamo tutti uguali, non tutti abbiamo gli stessi diritti. Dove questo verbo attecchisce, in fondo c’è il lager”. Sono parole nette, forti, da leggere e su cui riflettere con attenzione oggi, che quel verbo torna a circolare con prepotenza.

A guardare bene i lager ci sono ancora, non troppo lontani. In Libia, sostenuti anche da finanziamenti del nostro paese, e in un’altra ex colonia italiana: l’Eritrea, il paese da cui provenivano quasi tutti i 368 morti del naufragio del 3 ottobre 2013 e la maggioranza dei “sequestrati” della nave Diciotti. L’Eritrea è l’unico paese al mondo dove l’obbligo alla leva militare dura tutta la vita, spingendo alla fuga un’intera generazione, come ha raccontato con passione e precisione Alessandro Leogrande nel suo ultimo libro, La frontiera.

Primo Levi parla di un verbo che attecchisce ed è a partire dalle parole, dall’uso che facciamo delle parole, che dobbiamo ripensare con rigore e radicalità il nostro ruolo di insegnanti in questi giorni bui della storia repubblicana.

In tanti siamo allarmati per il ritorno di episodi di razzismo e, soprattutto, per le giustificazioni e coperture istituzionali che sempre più si danno a diverse forme di intolleranza, come mai era accaduto in passato.

E, visto che noi insegnanti siamo impiegati statali, e siamo chiamati dalla legge a educare rispettando e sperimentando nelle nostre classi la democrazia e i valori della costituzione, non possiamo sottrarci al compito di costruire, giorno per giorno, una scuola all’altezza delle sfide del presente. Non possiamo non riconoscere l’inevitabile ruolo politico che hanno le nostre parole e, ancora di più, i nostri comportamenti.

Nelle scuole, se sappiamo prendercelo, abbiamo tutto il tempo per incontrarci davvero

Le scuole sono il principale luogo sociale – e istituzionale – in cui si incontrano bambine, bambini, ragazze e ragazzi che appartengono a etnie diverse e portano con sé molteplici lingue e culture, che provengono da ogni parte del mondo.

Ci troviamo dunque a vivere in un laboratorio sociale dove sperimentiamo le difficoltà della compresenza e della convivenza, insieme alle straordinarie potenzialità conoscitive offerte dalle differenze tra culture.

In modo appartato, nelle nostre aule, siamo di fronte agli stessi temi che infiammano il discorso pubblico a aizzano la retorica politica e mediatica, ma in un contesto e in una condizione del tutto diversa.

La differenza sta nel fatto che nelle scuole, se sappiamo prendercelo, abbiamo tutto il tempo per incontrarci davvero, conoscerci, intrecciare memorie, saperi ed emozioni. E possiamo farlo ingaggiando un corpo a corpo con culture ricche e complesse, che ci danno l’opportunità di uscire allo scoperto e di rivelare parti di noi spesso sconosciute a noi stessi.

Ma naturalmente questo accade solo se diamo la parola ai più giovani, se creiamo un contesto di ascolto reciproco, se scegliamo di curare in ogni dettaglio e con sottigliezza l’arte del dialogo e della comunicazione sincera, capace di attenuare pregiudizi e frasi fatte. Insomma, se costruiamo insieme un percorso didattico capace di trasformare ogni classe in una piccola comunità.

L’appello di Mario Lodi
E comunità si crea quando c’è curiosità reciproca, quando scopriamo che ascoltare l’opinione di una compagna o di un compagno su un racconto, una musica o un teorema ci rallegra e ci stimola, ci aiuta a entrare meglio e a capire di più un testo, una pittura o un periodo storico e, insieme, ci aiuta a capire qualcosa di più di noi. È la disomogeneità che nutre da sempre la nostra immaginazione, senza la quale non c’è conoscenza.

Mario Lodi, raccontando del suo ingresso nella scuola, scriveva:

La mia generazione aveva vissuto il passaggio traumatico dalla dittatura e dalla guerra alla libertà e alla democrazia. Nel 1948, l’anno che entrai di ruolo nella scuola pubblica, fu approvata la Costituzione e noi giovani maestri, all’interno della Scuola italiana ancora verticistica e autoritaria, sentivamo il dovere di tradurre concretamente nel lavoro con i bambini i valori della libertà, della pace e della responsabilità individuale nel contesto sociale della piccola comunità scolastica. Nessuno ci aveva insegnato come fare e fu un fatto nuovo vedere nascere, per la prima volta nella storia della scuola italiana, un movimento spontaneo di educatori che aveva come fine la elaborazione di una pedagogia popolare.

Mario Lodi evoca la “responsabilità individuale” e “l’elaborazione collettiva di una pedagogia” all’altezza delle sfide del proprio tempo come elementi cruciali di un insegnante. Credo che una scuola coerente con la nostra costituzione si realizzi solo se noi che la abitiamo ci assumiamo pienamente questa responsabilità.

Anche a noi nessuno ha insegnato come costruire efficacemente conoscenza e cultura in un contesto multietnico. E tuttavia, da oltre vent’anni, ci sono sperimentazioni di grande qualità in tutta Italia, e decine di migliaia sono le scuole in cui stiamo sperimentando quella complessa arte della convivenza, tanto cara ad Alexander Langer, e così necessaria oggi.

L’ipotesi su cui lavorare e impegnarci – che il tempo in cui viviamo ci chiama a dimostrare – è che una classe disomogenea, che ospita al suo interno ragazze e ragazzi dalle provenienze più diverse, ci aiuta a conoscere meglio il mondo, gli altri e noi stessi. Ci aiuta a conoscere ogni argomento con più sottigliezza, profondità e acume, perché possiamo approfittare di punti di vista diversi e inaspettati.

Realizzare tutto ciò non è facile. Comporta preparazione, dedizione, cooperazione con colleghe e colleghi, apertura all’esterno e una buona dose di coraggio, perché ci sono mille ostacoli da affrontare. Ancor più difficile è mostrare e dimostrare a chi è fuori dalla scuola caratteristiche e risultati di un processo necessariamente lento e profondo. Ma credo che non possiamo non provare ad affrontare questa sfida.

Un tavolo di lavoro
Il Movimento di cooperazione educativa ha promosso un tavolo di lavoro aperto, provvisoriamente intitolato “Bambini, minori, migranti, umanità”, che si è riunito il 3 settembre a Roma e si riunirà lunedì 17 settembre. Hanno già aderito oltre trenta associazioni, tra cui Cidi, Aimc, Adi, Cemea, Libera, Legambiente, Proteo, Siped, Flc-Cgil, fondazione Montessori, Centro psicopedagogico per la pace, Sos razzismo Italia. Ma si può partecipare anche singolarmente, o come scuole o gruppi o associazioni, mandando una mail.

Nel primo incontro molti hanno messo in luce la contraddizione tra la velocità con cui degenera il discorso pubblico – spesso fondato su falsità e semplificazioni – e la lentezza necessaria a ogni processo educativo degno di questo nome. Ma forse sta proprio nel guardare alla società con un’istanza educativa, dunque antropologica, che è possibile ripensare alla politica o, meglio, alla cultura necessaria al far politica.

Si tratta allora di dare un contributo a partire dalle nostre esperienze, di raccogliere e coordinare più forze ed energie possibili, invitando singoli insegnanti, colleghi di classe o di scuola, interi collegi di docenti, associazioni e gruppi di immigrati e italiani che si muovono nel territorio, perché promuovano o aderiscano a iniziative tutte da inventare e sviluppare durante l’anno scolastico, a partire dall’autunno.


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