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Troppi «dottori» senza lavoro: le scelte poco accorte degli universitari

Studio di Bocconi e J. P. Morgan: senza lavoro tra l’8 e il 13% dei laureati italiani: poco allineati università e aziende. Resta il nodo dell’orientamento. Ecco gli errori che le famiglie devono evitare

02/02/2019
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Corriere della sera

Antonella De Gregorio

L’Italia non solo è in coda tra i Paesi avanzati per la percentuale di laureati, ma ha anche uno dei più consistenti livelli di «disallineamento» tra i percorsi di studio scelti dai giovani e le esigenze del mercato del lavoro (siamo al terzo posto dopo Corea del Sud e Inghilterra). Uno «strabismo» che porta troppi «dottori» a trovarsi senza lavoro. A mettere in luce lo «skill mismatch» - come lo chiamano gli economisti - è l’analisi triennale New Skills at Work condotta da J.P. Morgan e Università Bocconi, i cui risultati sono stati presentati venerdì a Milano.

Università e lavoro

Avere pochi laureati - la percentuale più bassa in Europa - non premia poi in termini di occupazione: i tassi di disoccupazione dei laureati sono comparabili a quelli dei diplomati e sono molto più alti di quelli dei Paesi più simili al nostro per tipologia di struttura produttiva.

Scelte sbagliate

L’analisi prende in esame gli ultimi quindici anni: il «disallineamento» emerge con particolare evidenza nel confronto con la Germania, dove la disoccupazione tra i laureati nella fascia d’età 25-39 anni è stata del 2-4%, mentre quella degli italiani ha oscillato tra l’8 e il 13%. Anche il Paese tedesco registra una percentuale di laureati più bassa della media europea e inferiore di 10-15 punti rispetto a Francia e Spagna, ma la composizione per disciplina differisce nettamente da quella italiana: più laureati in informatica, ingegneria ed economia e management, mentre in Italia ci sono il doppio di laureati in scienze sociali e in discipline artistiche e umanistiche rispetto al Paese tedesco. «Alla base di questa situazione - ha commentato Massimo Anelli, economista della Bocconi - c’è anche un’informazione inadeguata sugli esiti lavorativi e retributivi delle diverse facoltà, che porta a una scelta basata sulle sole preferenze individuali per le diverse discipline».

Le lauree che rendono di più

Utilizzando un database unico, sviluppato grazie al programma VisitInps scholars, che gli ha consentito di seguire il percorso lavorativo di tutti i laureati di una grande città italiana fino a 25 anni dopo la laurea, Anelli ha calcolato il ritorno economico della scelta universitaria (depurandolo dalle capacità degli studenti e dalla loro condizione socio-economica) e ha trovato che le lauree che rendono di più (tra il 70 e il 100% più di una laurea umanistica) sono economia e management, giurisprudenza, medicina e ingegneria. A parte medicina, quindi, sono proprio le facoltà che registrano il deficit di laureati più alto rispetto alla Germania. Dal workshop giunge anche il suggerimento di costruire una scheda pubblica di ogni singola facoltà, con indicazioni sul reddito atteso, come già accade in una realtà più complessa come quella degli Stati Uniti.

La scelta delle superiori

Fondamentale - hanno poi sottolineato i relatori - il processo di scelta della scuola superiore, che può essere considerato uno dei motivi che portano l’Italia al disallineamento tra campo di studio ed esigenze del mercato del lavoro. A ridosso della chiusura dei termini per l’iscrizione online al primo anno di scuola superiore, un altro rapporto presentato alla Bocconi, condotto da Pamela Giustinelli e Nicola Pavoni, ha analizzato il processo di scelta della scuola superiore, arrivando alla conclusione che le famiglie sono troppo focalizzate su aspetti di breve termine, quali le preferenze dello studente, l’impegno necessario, la qualità percepita dell’istituto e troppo poco sugli aspetti di lungo periodo, come le prospettive in termini di mercato del lavoro o accesso all’università.

Le competenze dei diplomati

Le informazioni che vengono raccolte dalle famiglie tendono poi a concentrarsi su quelle che, fin dall’inizio sono le alternative preferite e che dipendono molto dal background socio-economico delle famiglie e dai risultati ottenuti dallo studente. In particolare, gli studenti nelle condizioni più disagiate sembrano prendere in considerazione pochissime alternative. La mancata corrispondenza tra le competenze richieste dal mercato del lavoro e quelle apprese tra i banchi, unita al fatto che i titoli rilasciati dal sistema scolastico non risultano informativi sulle effettive competenze si riflette sull’occupazione: i ragazzi tra i 15 e i 24 anni costituiscono il 6,5% della forza lavoro, ma ben il 20,3% dei disoccupati di lungo periodo e si è allargato il divario con il tasso di disoccupazione medio. Come hanno dimostrato i dati di dicembre: la percentuale di under-25 senza lavoro è salita al 31,9%, il triplo della media (10,3%).