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Test Invalsi: l’illusione morale di una giustizia che non c’è

di Rossella Latempa.

19/12/2018
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il manifesto

Non convince quanto scrive Chiara Saraceno sulle pagine di Repubblica («I test Invalsi per una scuola più giusta»), a commento delle recenti voci su una revisione/fusione degli enti preposti alla valutazione del sistema di Istruzione pubblico.

Non convincono né il titolo – il test strumento di giustizia sociale – né le argomentazioni – gli insegnanti che si rifiutano per principio di essere valutati – che hanno fatto da grancassa alla progressiva trasformazione neoliberale dell’istruzione italiana, in un contesto globale. Le denunce di Saraceno – l’addestramento seriale nelle scuole trasformate in ”testifici”, l’impiego dei test nelle certificazioni individuali degli studenti come biglietto d’ingresso nel mercato del lavoro o nelle Università– non descrivono distorsioni accidentali. Non si tratta di un uso deformato e perfettibile del test, “strumento di giustizia” incompreso, che non gode di simpatie nel mondo scolastico.

Un test censuario, come quello Invalsi, ossia somministrato alla totalità degli studenti dai 7 ai 18 anni, non è un neutro strumento di indagine scientifica, ma uno strumento di regolazione e controllo (accountability) dell’attività educativa, il cui fine è esattamente quello previsto: trasformare l’esito delle prove in una misura dell’apprendimento degli studenti correlata alla qualità delle scuole.

Buon punteggio ai test significherebbe automaticamente buona qualità. D’altra parte a questo serve il “valore aggiunto” che l’Invalsi ha confezionato: a capire quanto “aggiunge” o “sottrae” un istituto – e dunque via via il singolo insegnante – all’apprendimento dei suoi studenti. Si tratta di uno strumento performativo, capace di indurre comportamenti e giudizi di valore, contestato scientificamente e dagli effetti ben noti a chi conosce l’evoluzione dei sistemi di istruzione angloamericani, che premia chi avanza e punisce chi recede (per ora, solo moralmente all’interno della comunità professionale).

Se l’intento fosse quello di “monitorare le disuguaglianze”- impegno nobilissimo condiviso da tanti insegnanti- basterebbero dati statistici raccolti su campioni ben scelti. La somministrazione di massa di test e i questionari di carattere psicometrico (come dimenticare i nuovi quesiti della scorsa primavera sulle “aspettative future” a 10 e 15 anni: avrò abbastanza soldi per vivere? Sono un ragazzo capace di pensare in fretta? Riuscirò a comprare le cose che voglio?) sono invece perfettamente coerenti con la nuova deriva tecnocratica che l’istruzione (non solo italiana) sta attraversando e che tanti denunciano da tempo (si leggano i post di Roars o del gruppo Noinvalsi).

Deriva che poggia, da una parte, sull’illusione razionalista di poter quantificare ogni performance del soggetto-capitalista umano (così lo definisce Roberto Ciccarelli, Il capitale disumano, la vita in alternanza scuola lavoro, Manifestolibri) e, dall’altra, sulla totale delegittimazione del giudizio professionale e della specificità dei contesti, sostituiti da indicatori numerici facilmente comparabili.

Pensare – come sostiene Saraceno – che rifiutare i test standardizzati significhi nascondersi dietro il “velo dell’ignoranza” somiglia a un velo di ipocrisia. Così si strangola la scuola nelle morse di un fallimento di cui è ritenuta unica responsabile. Non è migliorando uno strumento di misura che si modifica il fenomeno che si vuole misurare.


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