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Stefania Giannini (lista Monti): "Crescita e innovazione prodotte solo con società più istruita"

22/02/2014
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L'Huffington Post

Ecco le risposte della professoressa Stefania Giannini (lista Monti), sul tema Università, e scuola alle domande del professor Stefano Semplici.

1) L'Unione Europea ha fissato per tutti gli stati membri l'obiettivo di una percentuale di laureati sul totale della popolazione, nella fascia di età compresa fra i 30 e i 34 anni, pari al 40 percento. Questo obiettivo, che dovrebbe essere centrato entro il 2020, appare irraggiungibile per l'Italia, che è riuscita finora a portarsi solo intorno al 20 percento (anche se i dati sui laureati triennali degli ultimi anni fanno immaginare che questa percentuale si alzerà). La candidata/il candidato dica se condivide o no la tesi, ribadita dal Consiglio dell'Ue nel 2011, che il perseguimento di questo obiettivo ha "un impatto positivo sull'occupazione e la crescita". Se la condivide, illustri le iniziative che a suo avviso devono essere assunte in tema di strutture, personale e organizzazione didattica. Dica anche in che modo dovranno essere finanziate. La candidata/il candidato dica se condivide o no la tesi, ribadita dal Consiglio dell'Ue nel 2011, che il perseguimento di questo obiettivo ha "un impatto positivo sull'occupazione e la crescita". Se la condivide, illustri le iniziative che a suo avviso devono essere assunte in tema di strutture, personale e organizzazione didattica. Dica anche in che modo dovranno essere finanziate.

Una crescita basata su conoscenza e innovazione e sulla creazione di nuovi e migliori posti di lavoro (obiettivi di Europa 2020) potrà essere prodotta solo da una società più istruita, più competente e costantemente aggiornata nelle proprie competenze. Tre strumenti chiari e semplici, cui corrispondono importanti programmi europei (Youth on the Move, Life-long learning) e finanziamenti altrettanto significativi. Non condividere questa visione significa porsi al di fuori della storia. Cosa fare in Italia, perché il numero dei nostri laureati si avvicini all’obiettivo indicato dal Consiglio Europeo perché questi stessi laureati siano pronti a fare la loro parte nell’occupare i 16 milioni di nuovi posti di lavoro altamente qualificato che saranno creati entro lo stesso anno 2020, in Europa?

Vedo tre livelli di intervento. Primo: il potenziamento del Diritto allo studio, Cenerentola nelle politiche universitarie dell’ultimo decennio, per garantire un reale incentivo al merito e una terapia efficace per la dispersione ancora altissima (in termini di studenti fuori corso e numero di abbandoni). Gli strumenti esistono, non vanno inventati: l’istituzione di un fondo nazionale per borse di studio (erogate anche nella forma del prestito d’onore), che permettano e incentivino sia la mobilità nazionale degli studenti che la mobilità internazionale è uno dei più sperimentati e con successo in molti paesi avanzati.

Secondo: la restituzione di un valore reale al titolo di studio, in cui le famiglie e gli studenti hanno perso progressivamente fiducia. Ciò significa il ripristino di una cultura del merito, che passa concretamente dal completamento del processo di valutazione della didattica e della ricerca, recentemente introdotto in Italia (ANVUR), ma non ancora messo a regime per tutto il sistema e dall’attuazione di un piano nazionale di orientamento che permetta agli studenti di scegliere in base al loro talento reale e anche considerando le potenzialità di occupazione.

Terzo: la didattica universitaria è stata radicalmente trasformata nel passaggio dalle lauree quadriennali al sistema a due livelli (3+2). Non tutto ha funzionato subito, né senza sofferenze, ma oggi la riforma è digerita. Si deve agire piuttosto sulla maggiore integrazione fra la comunità degli studenti e la comunità dei docenti: il primo commento dei ragazzi che tornano dal semestre Erasmus riguarda questo aspetto. E anche qui il cambiamento è prima culturale e poi strutturale (più elasticità nell’uso delle strutture di servizio, p.es. Perché le biblioteche di Lovanio sono aperte dalla mattina a notte fonda e le nostre chiudono inderogabilmente all’ora di cena?)

I finanziamenti pubblici dovranno essere senz’altro adeguati agli standard internazionali, ma un rifinanziamento a pioggia non produrrebbe l’aumento della qualità media e l’emergere delle eccellenze a livello internazionale. Più premialità collegata alla valutazione, anche per gli atenei. I finanziamenti privati sono stati finora timidi e occasionali. Il credito d’imposta strutturale è uno strumento ben collaudato in molti Paesi del mondo (UK, Francia, Singapore) e servirebbe ad attrarre anche investimenti stranieri in ricerca e innovazione. Tagliare veramente la spesa pubblica è un obiettivo fondamentale dell’Agenda Monti: spendere meno e spendere meglio significa collocare la spesa per l’istruzione negli investimenti in capitale umano quindi nel futuro del Paese.

2) Negli anni Ottanta del diciannovesimo secolo, il ministro della Pubblica Istruzione Guido Baccelli promosse un tentativo di riforma dell'università che non ebbe successo. Egli intendeva garantire agli atenei una "triplice autonomia" (amministrativa, disciplinare e didattica), con l'obiettivo di promuovere una "concorrenza vigorosa" e una "selezione naturale". La candidata/il candidato ritiene che l'idea della competizione per la sopravvivenza sia la chiave per promuovere allo stesso tempo l'eccellenza e l'equità? E' favorevole alla separazione fra poche università riservate ai migliori (docenti e studenti) e una rete anche ampia di università di "seconda fascia" per tutti gli altri? E in che modo andrebbe a suo avviso regolato l'accesso (per docenti e studenti) alle università della serie A?

Anche nel campo dell’istruzione dobbiamo introdurre e valorizzare due parole chiave: competizione e cooperazione. La competizione stimola condizioni di concorrenza fra atenei nel libero mercato internazionale, le migliori università per i migliori studenti, ma soprattutto per ricchi (Harvard è il paradigma noto). La cultura della cooperazione mira all'inclusione sociale: università di massa con libero accesso per tutti, ma spesso svalutate. I paesi che hanno privilegiato l'uno o l'altro stanno consumando il loro futuro, perché lasciare l'istruzione superiore a chi se la può permettere indipendentemente dal merito è contro la storia e l'idea stessa di progresso. Così come dare l'università a tutti, ma dargliela svalutata è come inflazionare la moneta per far tutti milionari. Cioè una truffa. Per lo sviluppo di una società globale e mobile, con tassi elevati di immigrazione (+15% nel Sud d'Europa dal 2005) e tassi drammaticamente elevati di disoccupazione giovanile (oltre il 20% in tutta l'Eurozona), educazione e cultura devono rispondere ad entrambe le missioni (inclusiva e competitiva) con equilibrio di strumenti, metodi e risorse. Partendo dalla scuola.

Non vedo nel futuro del sistema universitario italiano due campionati con accessi differenziati, non farebbe bene ad un Paese che deve irrobustire tutto il sistema dell’istruzione superiore. Ritengo, tuttavia, naturale e fisiologico che accanto al consolidamento di una qualità media certificata (QS SAFE 2011, 5° posizione in Europa e 10° nel mondo), si debba favorire e non scoraggiare percorsi di eccellenza presso quegli atenei che vogliono scommettere anche sulla competizione internazionale nei loro settori di punta (non tutti tutto dappertutto) e a cui gli studenti capaci e meritevoli (Art. 34) abbiano facoltà di accesso con accesso finanziato con un sistema di prestito restituibile in misura proporzionale alla retribuzione.
In sintesi: assicurare il livello medio e scommettere sull’eccellenza. Non c’è contraddizione, purché questo tema (istruzione e ricerca) torni al centro dell’agenda politica.

3) I provvedimenti di questi ultimi anni, a partire dalla legge Gelmini, hanno decisamente concentrato sulla ricerca la valutazione dell'attività e della "produttività" dei docenti universitari. Nelle nuove procedure di abilitazione, requisito necessario per la partecipazione ai veri e propri "concorsi", non si prevede più una prova didattica. La candidata/il candidato pensa che possano esserci "professori" che non insegnano o riconosce al contrario la centralità della responsabilità didattica nella sua unità inscindibile con l'attività di ricerca?

E' favorevole all'indicazione di un limite minimo di ore di lezione che tutti i docenti universitari dovrebbero essere obbligati a tenere, a prescindere da qualsiasi "merito" e impegno di ricerca? Ritiene che 120 ore di lezione l'anno possano essere un limite ragionevole? Quali provvedimenti intende promuovere per garantire agli studenti la presenza puntuale di tutti i loro professori per le lezioni, il ricevimento, gli esami?

Ho sempre pensato che i professori universitari siano (e debbano continuare ad essere) studiosi che insegnano e non insegnanti che studiano. La combinazione della ricerca e della didattica è fondamentale perché le università rispondano alla loro vocazione storica e alla loro missione moderna: luoghi in cui si produce e si trasmette un sapere critico originale. Ciò non toglie che l’equilibrio fra le due componenti (ricerca e didattica) possa essere regolato da princìpi di flessibilità organizzativa e di valutazione rigorosa dell’impegno dei singoli nel singolo ateneo (autonomia responsabile), come avviene altrove. Chi insegna a Princeton o al Max Plank ha obblighi diversi rispetto ai colleghi di altre università americane o tedesche, perché diversa è la finalità di queste due prestigiose istituzioni di alto profilo internazionale rispetto al resto del sistema.

Questo principio non mi pare disdicevole, se ben trasferito nel nostro sistema. La soglia minima di 120 ore è un compromesso ragionevole (almeno nel presente) fra l’organizzazione ‘anarchica’ del passato (altri numeri e altro contesto) e il rischio di trasformare i ricercatori e gli studiosi in ‘impiegati del pensiero’, che, se estremizzato, ucciderebbe l’univesrità nel futuro.
La puntualità, il rigore e l’autorevolezza non si assegnano per decreto, sono bensì il frutto di un passaggio di consegne, etico, dottrinale e di metodo, fra maestri e allievi. Su questo si fonda l’Accademia da Aristotele ai giorni nostri e su questo dobbiamo tornare ad investire. Più maestri nelle nostre aule universitarie e meno regolamenti. Non siamo, né vogliamo essere considerati ‘uffici contabili della cultura’.


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) Nei test di verifica delle principali competenze acquisite dagli studenti delle scuole italiane il "federalismo" delle differenze si impone come una realtà ormai consolidata. Prendendo come esempio i risultati dell'indagine Ocse-Pisa del 2009 per le scienze, gli studenti di regioni come la Lombardia, il Friuli Venezia Giulia, la Valle d'Aosta, il Trentino Alto Adige e il Veneto si collocano al di sopra della media Ocse, mentre molto al di sotto sono quelli di quasi tutte le regioni meridionali, con dati particolarmente negativi per Calabria, Campania e Sicilia. In che modo la candidata/il candidato ritiene che si debba intervenire per ridurre questo fattore primario di iniquità? E con quali risorse? E' favorevole, in particolare, a concentrare gli interventi anche "premiali" su quelle realtà che si rivelano capaci di contribuire di più alla crescita dei giovani nelle aree più difficili e disagiate?

I princìpi enunciati sopra valgono a maggior ragione per la scuola, che è istruzione dell’obbligo e che deve quindi garantire a tutti (veramente a tutti) il più alto grado possibile di cultura e di preparazione di base per il prosieguo degli studi. Lo squilibrio che i dati OCSE-PISA 2009 hanno evidenziato riflettono uno squilibrio reale, di cui il Paese soffre a scuola e altrove. Le quattro leve che porteranno ad un maggiore equilibrio sono, nell’ordine: autonomia reale ai singoli istituti scolastici, valutazione, riqualificazione del personale docente (formazione e aggiornamento), sostegno alle famiglie (anticipazione del diritto allo studio). Sono strumenti pensati e già sperimentati con successo in altri paesi non solo per far migliorare e premiare chi ha già ottenuto risultati apprezzabili, ma anche per migliorare la performance delle regioni svantaggiate.
La stima delle risorse necessarie è possibile utilizzando la previsione del FMI sulla crescita del PIL e dell’inflazione e considerando un riutilizzo pari allo 0,2% per la scuola.

5) Si stanno svolgendo le prove del concorso voluto dal Ministro Profumo per gli insegnanti delle scuole. Questa decisione è stata fortemente contestata da quanti avrebbero preferito non bandire concorsi fino all'esaurimento delle graduatorie dei precari. Qual è la posizione della candidata/del candidato su questo problema? Si impegnerà ad incalzare il prossimo governo perché ogni anno ci siano altri concorsi? E con quali modalità?

I concorsi sono efficaci se e solo se si svolgono regolarmente. Il concorso per gli insegnanti delle scuole è stato sospeso per 13 anni. La conseguenza non poteva che essere la patologia del precariato. Quindi concorsi regolari, che valutino competenze disciplinari e didattiche.