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Spettatore di un inevitabile naufragio nel mare della complessità. Dimissioni da un disastro

L’università è sempre più impigliata in una attività forsennata di complicazione e aumento della complessità di ogni procedura, che finirà per avere come risultato, in una sorta di eterogenesi dei fini, solo il collasso progressivo della sua qualità

02/06/2018
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ROARS

Francesco Coniglione

Quasi un anno fa il collega Felice Rappazzo decise di dimettersi da Presidente del suo Corso di Studio (CdS) con una lettera che ho letto con attenzione e non senza ammirazione. Per un duplice ordine di motivi: perché assai ben scritta, con stile, acume e una amara ironia atta a suscitare un sorriso doloroso in chi, trovandosi in una posiziona analoga alla sua, non poteva non fare simili riflessioni; e con convinta partecipazione da parte mia che, pur non ricoprendo al tempo cariche di sorta, tuttavia ne comprendevo assai bene le motivazioni avendo espresso giudizi simili sulla condizione dell’università, sia per iscritto, sia nei colloqui di ogni giorno con i colleghi.

Oggi mi trovo a ricoprire anch’io il ruolo di Presidente di CdS e, a causa del noninvidiabile privilegio dell’anzianità di ruolo, sono al tempo stesso Presidente della Commissione tirocinio, Presidente della Commissione dei piani di studio, Presidente della Commissione paritetica docenti-studenti (CPDS) (anche se questo ruolo dovrei a breve lasciare per una fortunata incompatibilità con quello di Presidente del CdS), oltre a dover adempiere ai miei doveri didattici, a far parte della Commissione nazionale per la Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN) con centinaia di pubblicazioni da leggere e a dover svolgere ricerca scientifica in modo da essere valutato nella VQR – ma quest’ultima è cosa che interessa sempre meno i “decisori politici” (come oggi vengono chiamati) che governano il sistema dell’istruzione universitaria italiana, in quanto strumentalmente utilizzata per colpire qualche università e magari risparmiare sulle spese.

Sono uscito abbastanza scosso dalla compilazione della Relazione annuale CPDS, anche se abbastanza soddisfatto del lavoro compiuto (oltre 50 pagine ricche di tabelle); e ho da poco finito di redigere la scheda SUA-CdS, che viene approvata ogni anno dal Corso di studio. Ho dovuto così dimenarmi tra Gruppi di gestione di qualità e consultazioni fatte con i cosiddetti “stakeholders”, cioè supposti portatori di interessi esterni all’università e composti da società, aziende e organizzazioni varie, che dovrebbero dire ai docenti come si fa meglio a organizzare un corso di studio affinché i suoi laureati siano in grado di entrare nel “mercato di lavoro”, al quale devono essere opportunamente “accompagnati”. Già, perché ormai l’università sembra avere solo questo compito: formare degli obbedienti lavoratori che possano incastrarsi come utili rotelline in un mercato di lavoro le cui caratteristiche dovrebbero essere rese conoscibili da qualche stakeholder, che possibilmente conosce solo il “particulare” della propria azienda o società e le cui conoscenze sono spesso in tremendo ritardo rispetto al sempre più veloce cambiamento delle opportunità di impiego. La cultura, la formazione della personalità e dell’uomo nella sua integrità, il possesso di una coscienza critica completa e non funzionale alla professionalizzazione sembrano essere stati espulsi totalmente dagli orizzonti universitari. Ma non basta: ho anche dovuto delineare il “Profilo professionale e sbocchi occupazionali e professionali previsti per i laureati”, indicandone la funzione nel contesto di lavoro e le competenze associate alla funzione; indicare le conoscenze richieste per l’accesso al CdS, nonché le modalità di ammissione, quali siano gli obiettivi formativi specifici del corso e quali “competenze” ci si propone di sviluppare; descrivere la “knowledge and understanding” nonché la capacità di “applying knowledge and understanding”, in coerenza con gli indicatori di Dublino. E poi descrivere ciascuno di questi elementi per le diverse aree disciplinari del CdS, indicare la discipline di riferimento attraverso le quali vengono verificate le attività formative; descrivere in che modo i laureati sviluppano la “autonomia di giudizio”, le “abilità comunicative” e le “capacità di apprendimento” e così via, sino alle attività di tutorato in itinere, alle prove di ingresso e, per finire – e qui abbrevio per non essere noioso – alle opinioni studenti, cioè alla loro soddisfazione per il CdS, rilevata dalle schede OPIS (= OPInione Studenti) somministrate nel CdS e dai dati forniti da AlmaLaurea. E poi dati statistici su quanti studenti, che percentuali, in che misura e così via, oltre a una infinità di “indicatori”, “punti di attenzione”, “requisiti di qualità” “sillabi”, parametri, sigle e acronimi, per districarmi tra i quali e non smarrirmi in tale selva ho dovuto compilare una apposita tabella.

Quest’ultimo punto merita qualche commento, perché la soddisfazione dello studente non necessariamente coincide con la qualità dell’insegnamento impartito, a meno che per qualità non si intenda semplicemente ciò che è utile ai fini dell’immediato inserimento nel mondo del lavoro; e anche in questo caso l’opinione degli studenti è quanto mai inattendibile: cosa ne sanno dei ragazzi appena usciti dalla scuola superiore del loro possibile destino professionale in connessione alle discipline che stanno studiando? Ancora, detto in altri termini, l’aver accertato la soddisfazione o insoddisfazione espressa dagli studenti per la loro esperienza nei rispettivi CdS, è un indice affidabile per giudicare la “qualità” dell’insegnamento stesso? E questa “qualità” è interamente riducibile a meri parametri numerici, spesso mal concepiti?  Perché se la “soddisfazione” risponde alla esigenza di tener conto degli studenti come co-protagonisti della vita universitaria, invece la “qualità” è un valore che ha di mira l’intera società alla quale, grazie all’investimento di consistenti somme per tenere in piedi un sistema universitario efficiente, interessa poter fruire di uno psicologo o di un pedagogista (ma anche di un medico o un ingegnere) che siano competenti e sappiano fare il proprio lavoro, grazie al fatto che l’insegnamento da loro ricevuto è stato di “alta qualità”, e non solo che abbia “soddisfatto” gli studenti.

E alla fine a che serve questa SUA-CdS? Praticamente a nulla: viene pubblicata nel sito Universitaly e dovrebbe essere consultata dagli studenti e da chi è interessato a vedere che tipo di formazione si riceve nei vari CdS delle università italiane; ma mette a disposizione notizie e informazioni che di fatto sono il duplicato di quanto già contenuto nelle pagine web dei dipartimenti e dei singoli CdS, però il tutto espresso in modo più cervellotico e in linguaggio burocratese, buono a mimetizzare in una cortina di fumo le reali dinamiche e gli effettivi funzionamenti dei CdS.

La scheda SUA-CdS – come anche i suoi consanguinei e parenti quali l’AVA e la VQR e tutte le altre infinite superfetazioni burocratiche, amministrative e normative che infettano e rendono invivibile l’odierna università – sono una prova di quanto il sistema universitario sia ormai giunto in quello stato di complessità in cui subentra la cosiddetta “controplessità”, quando «ad ogni nuovo livello di complessità, i payoff sono inferiori che nel precedente livello di complessità» (G. Sapienza, “Principi di controplessità”, in Id., Processo alla complessità, letteredaQalat, Caltagirone 2015, p. 139). Infatti, vale in generale che al crescere della complessità di una organizzazione o di una società, i rendimenti risultano sempre più decrescenti, sino al punto che il sistema, incapace di aumentare la propria efficienza, finisce per collassare sotto il peso di una complessità ormai ingestibile. Come ha scritto uno studioso americano, Joseph A. Tainter (The collapse of complex societies, Cambridge University Press, Cambridge 1988), una società complessa entra così nella fase in cui diventa sempre più vulnerabile al collasso, in seguito al quale il sistema finisce per riassestarsi a livelli più bassi di complessità. Purtroppo tale riassesto non avviene senza traumi, dolori, catastrofi e distruzioni materiali, così come è dimostrato dal collasso dei grandi imperi, in cui la scarsità delle risorse ha impedito un ulteriore aumento della complessità sistemica, causandone il crollo; è il caso paradigmatico dell’impero romano, portato ad esempio da Tainter.

Ebbene, sembra proprio che l’università sia avviata decisamente verso questo destino: per aumentare la qualità della ricerca si investono somme crescenti per monitorarla, si complicano le procedure che ne regolamentano il funzionamento, si rende sempre più cervellotica la sua gestione col risultato finale di vanificare lo scopo per cui tutto questo ambaradan è stato concepito, di sottrarre risorse utili e impedire di fatto la effettuazione di buona e creativa ricerca; analogamente, le misure per il  miglioramento della qualità della didattica richiedono sempre più tempo nella gestione dei meccanismi burocratici che permettono di controllarla e certificarla, sottraendo spazio ed energie ai docenti e a chi è interessato di fatto ad esercitarla, così ottenendo il risultato esattamente contrario a quello previsto. E ci limitiamo a questi due aspetti, senza parlare dello stato di insoddisfazione, disamoramento e di distacco – sia dei singoli docenti (che ormai vedono il pensionamento come una sorta di liberazione) come di chi occupa una carica – chiamati a un lavoro sempre più pesante a cui non corrisponde alcun tipo di gratificazione (nemmeno di tipo non economico), ma solo continue bastonature in termini di controllo e di mortificazioni, persino stipendiali, in un ateneo in cui ci si sente sempre più sudditi (grazie Gelmini!). Insomma l’università è sempre più impigliata in una attività forsennata di complicazione e aumento della complessità di ogni procedura, che finirà per avere come risultato, in una sorta di eterogenesi dei fini, solo il collasso progressivo della sua qualità, della sua attitudine a far ricerca, della sua capacità di formare uno spirito creativo e consapevole del cittadino, persino della sua prontezza nel rispondere alle esigenze del mercato del lavoro.

È un naufragio prevedibile, a cui tutti sembrano assistere come impotenti spettatori e sul quale viene proprio da domandarsi se i “decisori politici” non perseguano proprio questo fine: drasticamente ridurre il ruolo dell’università pubblica per creare al suo posto enti di ricerca e formazione di carattere privato o semiprivato che rispondano meglio ai bisogni del “mercato” e delle “aziende”.

Di fronte a questo spettacolo ho deciso di non essere più complice: adempiere alla mia funzione di Presidente di CdS – con tutte le ulteriori prerogative che ne conseguono – significa di fatto essere interni a questo meccanismo e illudersi che, assumendo un comportamento responsabile e impegnato, sia possibile salvare quanto più possibile di un’idea d’università che non sia la semplice subordinazione alle esigenze del mercato, con la inevitabile sua deriva aziendalista (oggi avvertibile persino nel vocabolario entrato in uso al suo interno). Non voglio rassegnarmi ad abbandonare un’idea di cultura che ha una sua logica, sue esigenze e che mira a formare l’uomo; una cultura che sia un mezzo per quel miglioramento umano e quel progresso interiore la cui omissione è alla base della barbarie del tempo presente. Un “miglioramento dell’uomo” che sembra ormai essere all’ultimo posto dell’agenda educativa, per essere appaltato o rimesso a forme informali di educazione, come la rete o le varie confessioni e, ancor peggio, i credi fondamentalisti.

Ecco perché ho deciso di dimettermi dalla carica di Presidente di CdS, una volta consegnata, come mio ultimo impegno, la scheda SUA-CdS. In passato il senso di responsabilità mi aveva impedito di farlo; ma di fronte a tanta consapevole irresponsabilità e cecità politico-governativa, non si può essere da soli a tentare di salvare la baracca. Tocca ad altri, a chi crede che procedendo su questa strada si stiano mettendo le basi di “sorti magnifiche e progressive” dell’università, prendere il testimone. Io mi accontento di essere solo lo spettatore di ciò che mi pare sempre più un inevitabile naufragio, per richiamare un famoso volume di Hans Blumenberg; e mi piace immaginare, forse sognare, che una spontanea dimissione in massa di chi occupa le varie cariche universitarie possa costituire una sorta di sveglia per chi ci governa, più di tanti scioperi e senza “danneggiare” nessuno, almeno nell’immediato. So bene che questa è una illusione: in molti hanno capito che il nuovo assetto universitario dà impensate possibilità di carriera, nuovi modi di esercitare il potere, inedite forme di scalata accademica; sono troppe le posizioni che si sono consolidate negli ultimi anni a seguito dell’affermarsi della “cultura della valutazione” e dei meccanismi di controllo e certificazione gestite dall’Anvur; troppi ormai coloro che da questa complessità crescente traggono benefici e vantaggi; in fondo anche nelle grandi crisi, nella fine di imperi e società, v’è stato chi si è illuso di poterne trarre favore. Sino a che tutti non ne verremo travolti. Spero proprio che sia possibile fermarsi in tempo.


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