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Soldi pubblici per premi scientifici?

di Elena Cattaneo

15/07/2018
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la Repubblica

AMichele De Luca e Graziella Pellegrini, dell’Università di Modena e Reggio Emilia, e al chirurgo Tobias Hirsch è stato assegnato il premio da un milione di euro “Lombardia è ricerca” per la tecnica che ha permesso di rigenerare e curare la pelle malata di Hassan, il bambino-farfalla di 9 anni. Una scoperta che inorgoglisce il Paese. Ma le modalità con cui la Regione Lombardia impegna risorse pubbliche meritano una riflessione.

Nel ricevere i tre milioni di dollari del Fundamental Physics Prize promosso da magnati “illuminati”, Alexander Polyakov, della Princeton University, commentò che «i grandi premi possono avere un effetto positivo, oppure possono essere molto pericolosi». Era il 2013 e Nature segnalava il timore che questi grossi premi, remunerando gruppi che hanno già finanziamenti, aumentassero il divario con il resto degli scienziati. Il dibattito è aperto e si presta ad opposte argomentazioni.

La discussione è ben diversa quando un premio ricchissimo, per la ricerca italiana, è finanziato con risorse pubbliche su iniziativa di una istituzione eletta dai cittadini. In questo caso si assiste a una “munificenza di Stato” che attribuisce risorse pubbliche ad una persona o gruppo per quel che ha fatto in passato. Nel 2016 la Regione Lombardia si è proposta di potenziare l’investimento in ricerca istituendo, tra le iniziative, una giornata intitolata a Umberto Veronesi con la consegna del premio “Lombardia è ricerca”.

Una giuria di 15 scienziati decide a chi assegnarlo, sulla base di candidature promosse da istituzioni scientifiche e studiosi con h-index (indice dell’impatto scientifico di un autore) maggiore di 50. Un giovane che volesse candidarsi con la sua scoperta non può farlo né è prevista la sottomissione di una “application”.

Il Premio prevede che 300 mila euro (pubblici) siano “regalati” al vincente. Altri 700 mila sono destinati ad indefinite “attività di ricerca” che il vincitore dovrà svolgere nel territorio lombardo. Sono erogati, cioè, senza sapere su quale ricerca saranno investiti e senza vagliare in modo comparativo alcuna progettualità.

Quest’anno il premio era destinato alla “medicina di precisione” e, avendone i requisiti, sono stata invitata a proporre una candidatura. Invito a cui, come ho spiegato a colleghi, al presidente della giuria e alla Regione, non ho dato seguito in assenza dell’unico modo che, da scienziata, conosco per scegliere cosa premiare con soldi pubblici, nonché l’unica garanzia per massimizzare un investimento istituzionale: la competizione pubblica, aperta a tutti, trasparente, che parta da una “application” e sia rendicontata. Mi è stato risposto che è «tutto in regola», «così fan tutti», «lo dimostrano i cv di colleghi stranieri pieni di premi» come se l’origine pubblica delle risorse fosse indifferente al loro utilizzo e la Regione, o altra istituzione pubblica, potesse comportarsi alla pari di un “magnate”. Alla domanda posta a suo tempo dal professor Gilberto Corbellini: «In quale paese civile si usano soldi pubblici per farne premi scientifici?», non resta che la risposta più penosa: il nostro. Il rifiuto di avallare strumenti di assegnazione di fondi pubblici al di fuori di bandi competitivi deve essere continuo e inequivoco. Viceversa, si rischia di confondersi con modalità patologiche di finanziamento della ricerca che nel nostro Paese abbondano. Non è questo che prevede il metodo scientifico e non è su questo che si basa il rapporto non negoziabile tra scienziato e cittadini. Basterebbe virare verso un modello aperto, magari avvalendosi di autorevoli e benemeriti sponsor privati, per correggere una rotta pur animata da apprezzabili intenti.


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