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Siamo sicuri che “il momento è giunto”? Cinque domande sulla contrattualizzazione dei professori universitari.

31/08/2017
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ROARS

Negli ultimi giorni di agosto probabilmente non pochi dei lettori di Roars guardavano con preoccupazione alla campagna di stampa che stava crescendo in concomitanza con l’avvio della protesta dei professori universitari, promotori di uno sciopero concernente gli esami del primo appello della sessione autunnale. Da qualche anno è infatti comune sentire che, finire sui quotidiani, per l’università e per i professori stessi, non sia mai un bene, soprattutto a seguito di alcune vere e proprie campagne denigratorie che hanno contribuito, unitamente a numerosi episodi di malcostume, purtroppo da parte di universitari, a preparare il terreno alle politiche scellerate di definanziamento e riforma del sistema universitario cui assistiamo da ormai un decennio.

Ancora non era ben chiaro a cosa preludesse esattamente l’attenzione inusitata dedicata questa volta da alcuni tra i principali quotidiani all’Università italiana, quando una notizia interessante è giunta non dai media, bensì dal sindacato, con un comunicato pubblicato dalla Flc Cgil dal titolo alquanto perentorio, “Università: contrattualizzare i docenti universitari. Il momento è giunto”.

Dopo una parte introduttiva di analisi circa le problematiche del settore della formazione, nel comunicato, il segretario generale Sinopoli lamenta l’involuzione subita dall’Università italiana sin dall’entrata in vigore della legge n. 240, considerandola (condivisibilmente a mio avviso) una legge sbagliata e dannosa, che ha impoverito il sistema universitario e reso meno democratica la gestione degli Atenei, aumentando individualismo e autoreferenzialità, giungendo poi ad una conclusione che, come cercherò di dimostrare, appare  slegata dalle premesse e sommamente discutibile. Il comunicato, infatti, premessa la considerazione per cui:

oggi partirà la protesta di una parte dei docenti universitari per vedere riconosciuta una dinamica salariale che le varie leggi di bilancio hanno spezzato. Abbiamo da subito detto che occorre costruire un movimento che tenga dentro tutte le componenti dell’Università, a cominciare dagli studenti, dai precari e dal personale tecnico-amministrativo che soffrono per lo stesso blocco degli stipendi”,

conclude poi così:

In questo quadro è maturo il momento per affrontare la questione della contrattualizzazione del personale docente delle Università, considerando anche che nel mondo accademico è avvenuta una trasformazione radicale del proprio contesto istituzionale senza che si sia avviata un’adeguata riflessione sulle nuove professionalità e sulle relative logiche. La mancanza di una interlocuzione contrattuale per i docenti universitari con lo Stato, come avviene per tutti gli altri lavoratori pubblici, rischia di far pagare a questa categoria un prezzo altissimo. Non c’è più nessun motivo per non pensare ad una riforma che consideri la contrattualizzazione dei docenti universitari”.

Nel comunicato si rivolge poi la richiesta al Governo, alla Ministra Fedeli e ai parlamentari di affrontare da subito questo tema.

Prima di provare a ragionare sinteticamente su alcuni punti critici del ragionamento alla base del comunicato e su diversi quesiti che esso suscita (tra cui le trasformazioni prodotte dalla l. 240 in rapporto alla necessità di “contrattualizzare”, il nesso con la protesta, i destinatari di questa proposta, etc.) una pur brevissima premessa è necessaria per i lettori non giuristi che non avessero presente la questione sullo sfondo.

Lo status (stato giuridico ed economico) dei docenti universitari a tempo indeterminato è disciplinato integralmente dalla legge e non da un contratto, come avviene invece oramai per la quasi totalità del pubblico impiego. Le radici di questa scelta legislativa, coerentemente seguita sin dalla nascita della Repubblica è da ritenere si trovino nelle peculiari caratteristiche della funzione svolta dai professori universitari, cui presiedono alcuni principi costituzionali fondamentali su cui è bene soffermarsi brevissimamente.

Sin dalla discussione in Assemblea costituente su quello che sarebbe poi diventato l’art. 33 (in particolare per i commi che riguardano l’Università, c. 1 “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” e c. 6 “Le istituzioni di alta cultura, università e accademia, hanno diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”), si pensò bene che la posizione del professore universitario dovesse essere contraddistinta dalla massima indipendenza, sottraendola alle possibili influenze della politica, o comunque da una “ricattabilità” per ragioni di ordine economico, che ne avrebbe compromesso la libertà. I costituenti in questa discussione svolsero non a caso significativi parallelismi con la posizione della magistratura.

Da queste istanze e dal dibattito complessivo scaturì dunque la formulazione del comma 1. Sulla base di questi principi il legislatore è successivamente intervenuto più volte nella disciplina della materia, sempre mantenendo però lo status pubblicistico per i professori universitari, anche dopo la cosiddetta “privatizzazione del pubblico impiego” (dlgs n. 29 del 1993, con cui si è assoggettato alla disciplina del codice civile e alla contrattazione collettiva la regolazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici), così come ha fatto per i magistrati, i militari, il personale diplomatico e su questa linea si è ritenuto di proseguire anche nei decenni successivi.

Cosa potrebbe comportare ora la “contrattualizzazione”, ovvero l’attrazione verso un regime prevalentemente “privatistico” del rapporto di lavoro dei professori universitari e quali sono le ragioni delle reazioni tanto allarmate ogni volta che questo vero e proprio spauracchio riemerge nel dibattito sull’università? In primo luogo le preoccupazioni riguardano le maggiori garanzie offerte dal regime pubblicistico, a fronte della progressiva flessibilizzazione e indebolimento dello status del personale contrattualizzato. Il pensiero corre alla situazione degli insegnanti della scuola pubblica italiana, e alle poco soddisfacenti condizioni stipendiali e lavorative in cui essi operano.

Di indebolimento dello status peraltro si può parlare già, pur nel permanere del regime pubblicistico, anche per il ruolo della docenza universitaria. Sappiamo bene, infatti, che la legge n. 240 ha introdotto significativi elementi di delegificazione dello stato giuridico/economico dei docenti. Ciò è avvenuto ad esempio affidando ai regolamenti di ateneo la disciplina del reclutamento, così come quella dell’attribuzione degli scatti stipendiali (non più automatici, ma previa richiesta e valutazione positiva da parte dell’ateneo). Non si è forse riflettuto abbastanza sul dato per cui affidare l’attribuzione degli scatti ad una valutazione tutta interna all’ateneo sostanzialmente mette il docente in una posizione di “ricattabilità” e di soggezione agli organi di governo dell’università, oltre che alle condizioni finanziarie dell’ateneo in cui opera. Un aspetto questo che non mancherà di manifestarsi quando inizieranno ad essere svolte le prime tornate di valutazione ai fini dell’attribuzione degli scatti stipendiali, e che non potrebbe che aggravarsi ulteriormente in regime di contrattazione.

Quali possibili risposte a questi problemi individua la FLC e in particolare perché ritiene che l’attrazione verso il regime “privatistico” potrebbe portare ad un miglioramento dello status dei docenti, in relazione alle questioni ricordate?

Questi profili, unitamente a quello della ulteriore perdita in termini di autorevolezza agli occhi dell’opinione pubblica che si produrrebbe con la contrattualizzazione, lasciano ad oggi pensare che una simile scelta rappresenterebbe un ulteriore definitivo “declassamento” del ruolo docente, a fronte del permanere delle ragioni fondative dello status pubblicistico, che risultano oggi invariate. Esse peraltro appaiono semmai sempre più evidenti proprio perché ci troviamo oggi dinanzi ad una certa invadenza della politica nella vita degli atenei, così come ad un assoggettamento delle attività svolte dai docenti a vincoli ed oneri burocratici sempre più stringenti. Del resto se lo status pubblicistico avesse una ragion d’essere che è venuta meno, il passaggio al regime privatistico dovrebbe essere perseguito allora anche per magistrati, ambasciatori, funzionari delle autorità indipendenti. Va ricordato peraltro che, per quanto riguarda il blocco stipendiale, i professori e ricercatori universitari hanno subito negli ultimi anni una discriminazione rispetto alle altre categorie del pubblico impiego (il cui trattamento è rimasto bloccato per un anno in meno) e in particolare rispetto ai magistrati (cui in forza di una sentenza della corte costituzionale il blocco è stato rimosso retroattivamente). Alla luce di tutto ciò perché la proposta, che sembra di capire sia quanto meno avallata in ambienti governativi, riguarda invece solo i docenti universitari?

Un profilo che non è certo sia stato tenuto in considerazione nel formulare la proposta è poi quello per cui, data la peculiare natura delle università statali, di enti con uno statuto di autonomia costituzionalmente garantito, la contrattualizzazione, combinata con l’autonomia, non potrebbe che implicare la necessità di negoziare a livello di singolo ateneo, – in parole povere – rappresentanti sindacali dei docenti vs governance del singolo ateneo, il contratto dei professori e ricercatori a tempo indeterminato. Ciò naturalmente non potrebbe che riguardare aspetti come la retribuzione, variabile sulla base delle disponibilità finanziarie dell’ateneo, così come le modalità e condizioni di lavoro etc.

Una simile novità si collocherebbe in un panorama di già significativa diversificazione delle condizioni dei diversi atenei, che vede in particolare una linea di frattura molto profonda tra le università del nord e quelle del sud del paese. Siamo certi che vogliamo giungere ad avere stipendi diversi per i docenti strutturati nelle diverse università (e soprattutto nelle diverse aree geografiche del paese), e che sia corretto approfondire ulteriormente quel divario con misure che portano chi “sta male” a “stare sempre peggio”…?

Si è già accennato a come probabilmente nei fatti già esista un problema di conformità del regime della docenza a quelle esigenze di indipendenza e di “non ricattabilità” che si ricordavano, problema che si estende e si aggrava sulla base della considerazione del dato per cui una crescente percentuale del corpo docente svolge la propria attività in un regime ancora diverso e più fragile, che potremmo definire quasi un tertium genus, quello dei ricercatori a tempo determinato. Siano di tipo A o B, essi appaiono collocati in un limbo che li vede privi di pressoché ogni garanzia, come….coloro che son sospesi. Tale generazione di studiosi sarebbe peraltro la prima ed unica potenziale destinataria (nel caso di accesso al ruolo docente) di una eventuale misura che introducesse la contrattualizzazione, giacché ogni tentativo di estenderla retroattivamente al personale già in servizio, o di applicarla a chi via via accede alle fasce superiori della docenza si dovrebbe scontrare con inevitabili censure di illegittimità. Allora sembra di poter rilevare che a meritare una riflessione urgente e tutta l’attenzione del sindacato non dovrebbe essere tanto il problema de iure condendo e futuribile oggi posto, quanto quello delle tutele oggi mancanti per tutta l’ultima generazione di studiosi. In proposito ci si può chiedere se una diversa e più morbida accoglienza avrebbe potuto trovare la proposta di introdurre una tutela contrattuale uniforme su scala nazionale delle figure RTD rispetto a quella ora avanzata invece circa i professori e i ricercatori a tempo indeterminato.

Venendo ora alla scelta della flc di assumere tale posizione mentre radio, tv e giornali parlano del cd “sciopero degli esami”, in prossimità della predisposizione della legge di stabilità, anche alla luce delle tante ed immediate reazioni nettamente negative dal mondo della docenza, dispiace constatare come si sia persa l’occasione di sintonizzarsi meglio con un mondo molto attento, ma anche difficile come quello dell’università. Mondo che ha avuto difficoltà a risvegliarsi dal suo torpore persino nel momento in cui sono state annunciate provvedimenti deprecabili come ad es. quello relativo all’istituzione delle cd “Cattedre Natta”, o quando si sono riscontrate numerose irregolarità nelle procedure di valutazione.

Oggi questo mondo sta dando forse per la prima volta da diversi anni un minimo segnale di vitalità. La protesta in atto, certamente discutibile in quanto presentata come inerente prevalentemente la questione salariale, a fronte di un mondo di problemi irrisolti e di un sistema universitario fiaccato da un’opera di certosina demolizione, poteva essere colta come un’occasione di riflessione e riattivazione di canali di comunicazione tra mondo della ricerca e sindacati, in una fase in cui il ruolo dei corpi intermedi ed in particolare del sindacato non è più compreso ed andrebbe anzi ricostruito, date le modificazioni ormai permanenti della struttura del lavoro in questo come in altri ambiti. Viene da chiedersi allora perché questo mondo non sia stato ascoltato prima di assumere una posizione così netta, svolgendo magari una consultazione ampia, e perché si sia scelto invece di rivolgersi immediatamente al Governo e alla Ministra, e quasi in via subordinata “ai parlamentari”, quasi ad avallare l’emarginazione dell’istituzione parlamentare dai processi decisionali su questa materia. E’ importante capire che l’avere come interlocutore il solo Governo, e non più la legge, rappresenta probabilmente proprio il salto culturale, oltre che politico, che, a tutela di quel po’ di autonomia che le resta, l’Università italiana non è disposta a fare.


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