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Sedotti e abbandonati. Lo Stato blocca i fondi ai ricercatori del Sud

Le start up di “Social Innovation” senza soldi da oltre un anno. I vincitori del bando pieni di debiti. Il Miur: difficoltà burocratiche

27/02/2017
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La Stampa

ANDREA MALAGUTI

INVIATO A NAPOLI

Quando gli hanno raccontato di un progetto per rilanciare il Sud che consentiva ai giovani più qualificati di Sicilia, Campania, Puglia e Calabria di sviluppare le proprie idee grazie a 40 milioni dell’Unione Europea e del Ministero dell’Università e della Ricerca, l’ingegnere Alessandro Brancati ha deciso di abbandonare l’Imperial College di Londra per tornare a Palermo.  

Una situazione che, a 29 anni, gli era piombata addosso dal nulla, ma che sembrava perfettamente logica.  

Un modo serio per affrontare la questione meridionale attraverso una sana collaborazione tra pubblico e privato: soldi, ricerca, giovani, idee, valorizzazione del territorio. «Ho immaginato un progetto di carpooling, una specie di bla bla car per i palermitani, autostop 2.0.. E mi sono detto: finalmente posso fare qualcosa per questa terra disgraziata e un po’ maledetta che è la Sicilia».  

Bello no? Per niente. Alessandro si era detto la cosa sbagliata e stava semplicemente entrando in uno sgangherato incubo molto italiano - fatta di promesse non mantenute, soldi buttati, intelligenze sprecate, burocrazia soffocante, rimpalli di responsabilità e carte bollate - che avrebbe avvelenato cinquantadue progetti di qualità e riempito di frustrazione e paura lui e altri trecento ragazzi come lui, che dall’aprile del 2015 attendono complessivamente un milione e mezzo di euro dallo Stato.  

Soldi previsti, accantonati e mai dati, necessari per pagare i fornitori, i dipendenti, i macchinari e anche il proprio lavoro. Magari un giorno li vedranno. Per il momento vedono i debiti. E le minacce dei creditori. «Siamo finiti nelle mani di una banda di incompetenti. Ci hanno bloccato i finanziamenti . Io e i miei colleghi abbiamo dovuto aprire un secondo fido per fare fronte agli impegni. Siamo esposti per 80mila euro. E abbiamo obblighi complessivi per 140 mila».  

E Alessandro, che assieme agli altri vincitori di bando sta organizzando una class action contro il ministero, non è quello a cui è andata peggio. «Basterebbe un decreto del governo per chiudere questa orribile parentesi, ma la politica non si muove». Un classico.  

I soldi bloccati  

Nel marzo del 2012 il Ministero dell’Università e della Ricerca decide di mettere in pratica un’intuizione apparentemente vincente dell’allora ministro Francesco Profumo, pubblicando un bando rivolto ai giovani con meno di trent’anni. È l’operazione «Social Innovation»: saranno i ricercatori migliori di quelle terre a dimostrate al mondo che il Sud non è solo criminalità e inerzia, ma è soprattutto creatività e intelligenza. Parte così la prima formula di finanziamento italiano a giovani ricercatori meridionali con la nomina di Project Officer - ufficiali pubblici con il compito di assistere i progetti nella fase di realizzazione - e con l’apertura di un conto cointestato «ministero-vincitore di bando» per evitare lo spreco di risorse e per rendere chiara la supervisione da parte dello Stato. Il messaggio è orgogliosamente netto: crediamo in voi, non ci deludete. Non ci vorrà molto per capire chi deluderà l’altro. A Napoli, davanti al Maschio Angioino, le rastrelliere per le biciclette sono desolatamente vuote e Roberta Milano, 31 anni, una laurea in beni architettonici, indica rassegnata quel che resta della stazione numero 8 del progetto di Bike Sharing vincitore del bando Social Innovation.  

«Faccio parte di Clean Up una associazione che si occupa di cittadinanza attiva e di sostenibilità ambientale. Ci siamo inventati un sistema per prelevare le biciclette senza dispositivi meccanici che fino a tre anni fa era innovativo. Ci dicevano tutti che a Napoli il bike sharing non avrebbe funzionato. Invece abbiamo avuto un successo eccezionale. In pochi mesi abbiamo raccolto 14mila utenti e contato 50mila utilizzi. Insomma, abbiamo fatto il botto. Tanto che il Comune ha deciso di fare una ciclabile su Corso Umberto sulla scorta del nostro esperimento». Filava tutto alla perfezione e Roberta aveva lo stesso candore contagioso dei bambini a cui le cose sembrano normali finchè qualcuno non li informa del contrario. «Un anno e mezzo fa ci hanno sospeso i fondi. Come a tutti. E il progetto è morto. Le dieci stazioni sono rimaste vuote, destinate a diventare ferraglia, e le cento bici sono finite in un magazzino. In compenso ci è rimasto un buco da 200mila euro».  

Soldi da dare a programmatori, avvocati, grafici, dipendenti. «Ma non c’è solo il danno economico. Ci abbiamo anche rimesso la faccia. La gente crede che le stazioni vuote e le bici sparite siano colpa nostra. Il Comune ha provato ad aiutarci rilevando il progetto. Ma il ministero non risponde neppure a loro». In tutti i cinquantadue progetti, gli investimenti delle attività previste sono stati anticipati dai vincitori del bando, che hanno fatto ricorso a prestiti bancari o a fondi personali. Ogni due mesi il Ministero provvedeva ai rimborsi, sulla base delle spese certificate. 

Nessun problema fino a un anno e mezzo fa, quando la ragioneria generale dello Stato si è resa conto che la procedura di assegnazione dei fondi era irregolare. Da un lato perché rischiava di risultare una forma illegittima di sostegno all’impresa agli occhi dell’Europa. Dall’altro perché, per facilitare le procedure di pagamento, il Ministero aveva avocato a sè la proprietà dei i beni mobili e immobili legati ai progetti .  

Peccato che per l’acquisizione di beni di qualunque tipo gli enti pubblici siano tenuti a passare da un bando della Consip (la stazione appaltante dell’amministrazione pubblica), che in questo caso non c’è stato. Morale? Il Ministero, in attesa di capire come risolvere la questione, ha deciso il blocco totale degli incentivi per il sostegno alla ricerca preferendo tutelare se stesso che preoccuparsi dei danni causati ai ricercatori. Noi abbiamo sbagliato, voi pagate. Inutili i ricorsi individuali e collettivi alla Comunità Europea, al ministero dell’Industria, al Presidente della Repubblica e a quello del Consiglio. C’era un intero Paese a scommettere su questa gloriosa iniziativa destinata a rivitalizzare il Sud, nessuno a farsi carico della responsabilità del suo fallimento.  

Proprietà intellettuale  

Alle start up le cose sono andate male ovunque. In Calabria, a Napoli, a Palermo, E anche a Lecce. I ricercatori vincitori del bando erano il futuro. A un certo punto si sono sentiti come barboni che vedono solo le mani che allungano gli spiccioli. E adesso neppure più quelli.  

L’architetto Sofia Giammaruco e i suoi sei colleghi avevano ribattezzato il loro progetto «Inculture». Innovazione nella cultura, nel turismo e nel restauro. «Ci siamo presi cura dell’Unione dei Comuni della Grecia Salentina. Attraverso un piano di diagnostica non distruttiva dei beni culturali in collaborazione con il Cnr e il Politecnico di Torino. Per ciascuno dei 12 comuni di riferimento abbiamo individuato un bene culturale su cui intervenire, ad esempio la Chiesa di Santo Stefano di Soleto». Un lavoro enorme. Che ha dato risultati eccellenti. Finchè quello che inizialmente pareva un entusiasmo illogico si è trasformato in sconcertante disincanto. «Era un progetto da quasi due milioni di euro. E sono fiera perché i soldi pubblici li abbiamo spesi bene. E anche perché non abbiamo debiti con nessuno. Solo crediti».  

Lo Stato deve a lei e ai suoi colleghi ottantamila euro. «La gestione del bando è diventata una barzelletta. Ci hanno preso in giro. Ed è assurdo che oggi, a 31 anni, mi trovi a fare causa allo Stato». E i suoi colleghi? «Ognuno ha preso una strada diversa». Sparito il progetto. Sparite anche le idee. Perché in questa trappola infernale il Ministero non si è fatto mancare niente. Lasciando i ricercatori anche senza la proprietà intellettuale del proprio lavoro. «Ci avevano fatto firmare un disciplinare che diceva il contrario. Ma dopo sei mesi ci hanno imposto di sottoscriverne un altro che rendeva il Ministero proprietario degli “eventuali diritti afferenti i risultati conseguiti”», dice Alessandro Brancati. E perché avete firmato? «Perché diversamente ci avrebbero tolto i finanziamenti. E perché speravamo che la proprietà dei risultati potesse restare a noi».  

Speranza vana. Ed è inutile fare finta di niente perché quel pensiero è come una zanzara che si posa ovunque per succhiare sangue. Truffaldini o incapaci? «Incapaci». 

«Lo sa cosa mi fa impazzire?», chiede il palermitano Francesco Massa, che assieme a due colleghi rientrati apposta dal Mit di Boston e dal Canada, aveva dato vita a un progetto di mobilità sostenibile. Cosa? «Che pensavamo di fare qualcosa per la nostra terra. E invece abbiamo scoperto che la nostra ricerca è stata abbandonata, mentre contemporaneamente il comune di Palermo sta sviluppando con il ministero dell’ambiente una applicazione di mobilità sostenibile. Cioè paga persone per fare cose che noi avevamo già pronte. Sono mondi che non si parlano. In questo Paese le cose vengono fatte completamente a caso».  

Fuga dalle risposte  

E adesso? Comunicare con il Miur per i trecento ragazzi dei cinquantadue progetti è diventato impossibile. «Abbiamo inviato decine di mail che non hanno mai ricevuto risposta e i telefoni squillano a vuoto». In effetti anche il ministro Fedeli (erede ultima di questo pasticcio) si nega alle interviste, consegnando al suo ufficio stampa un comunicato di incomprensibile vaghezza: «A breve i rappresentanti dei vincitori riceveranno una proposta emendativa e nel frattempo sarà istituito un tavolo tecnico per individuare i provvedimenti necessari per una corretta e il più possibile rapida gestione della fase conclusiva del bando». Boh. Si recupera un danno così? Difficile. Neppure i soldi, se mai dovessero arrivare, basteranno, perché sono le esperienze che abbiamo avuto a determinare il rumore del nostro tempo. E questo che sentono i ragazzi del sud è un rumore cattivo. Anche più cattivo del solito.  


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