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Se lavora solo il robot

Nelle aziende italiane che rimpiazzano i dipendenti con le macchine: “Ma ancora investiamo sul fattore umano”

25/06/2017
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la Repubblica

MARCO PATUCCHI

DAL NOSTRO INVIATO

ADRO ( BRESCIA).

«Certo, se ragionavo in un altro modo e non cambiavo questa macchina magari nell’immediato mantenevo il posto a due, tre operai. Poi, però, sarei andato fuori mercato e avrei dovuto licenziarne dieci». Paolo Streparava cerca di semplificarla così l’Industria 4.0, mentre coccola con gli occhi il robot che perfora gli alberi porta bilanciere prodotti per i camion della Volvo. Tutto intorno c’è pochissimo rumore, pavimenti lindi come in una clinica e un operaio che si aggira tra i macchinari con passo felpato. Streparava – 40 anni, amministratore delegato dell’azienda che porta il suo nome e quello del padre, il presidente, e del nonno, il fondatore – snocciola cifre per dare consistenza al ragionamento: «Oggi abbiamo 360 dipendenti in Italia, lo stesso numero di dieci anni fa, ma è cambiata la composizione: prima erano 300 operai e 60 impiegati, ora gli operai sono poco più di 200 e il resto sono impiegati, soprattutto tecnici che controllano i processi produttivi. E da qui monitoriamo anche le linee che abbiamo in Brasile e in India. Non solo non c’è stata perdita di occupazione, ma è migliorata la qualità del lavoro». Nel capannone accanto è in allestimento la nuova linea di produzione, naturalmente robotizzata, che ogni anno sfornerà 900mila pompe a iniezione per la Volkswagen. Intanto, un altro macchinario incardinato a 650 tonnellate di calcestruzzo e molle antisismiche, simula le sollecitazioni di ogni tipo di terreno per testare la resistenza delle componenti dei camion: «Vale 2,5 milioni di euro, ce l’abbiamo solo noi e i clienti lo sanno bene…» dice con malcelato orgoglio Streparava. Anche lì gli operai sono poche comparse che si aggirano tra plance di comando, monitor e gabbie metalliche.

A raccontarla da questa fabbrica a metà strada tra Brescia e Bergamo, simile a altre migliaia di aziende che sono il tessuto produttivo del nostro Paese, quella di Industria 4.0 sembra davvero una rivoluzione felice. L’ennesima accelerazione tecnologica che innesca il circolo virtuoso di produttività, crescita delle aziende, occupazione, miglioramenti salariali, aumento dei consumi. In fondo nel mondo è andata così con le precedenti rivoluzioni industriali (a cominciare da quella inglese di fine Settecento) e andrà così, sostengono molti economisti, anche questa volta con gli sviluppi della robotizzazione e della cibernetica. Ma poi bisogna fare i conti con altri numeri e altre previsioni che prefigurano una storia molto meno virtuosa. Il Fondo monetario addebita a robot e informatica il forte ridimensionamento (14 punti percentuali dal Settanta a oggi) della quota di reddito nazionale che nei Paesi avanzati è andata ai lavoratori. Per i ricercatori di Bruegel, autorevole think-tank di Bruxelles, tra il 45 e il 60% della forza lavoro europea rischia nei prossimi decenni di essere sostituita da robot. Secondo un rapporto della McKinsey, in tutto il mondo sono 1,2 miliardi i posti di lavoro sostituibili con le tecnologie. E ancora, una ricerca del Massachusetts Institute of Technology e della Boston University afferma che in media un robot installato ogni mille operai distrugge 6,2 posti di lavoro e fa calare dello 0,7% il salario. «Le macchine, un tempo strumenti per incrementare la produttività dei lavoratori – scrive Martin Ford nel best seller Il futuro senza lavoro – si trasformano esse stesse in lavoratori, e la linea di demarcazione tra le possibilità di lavoro e quelle del capitale sta diventando più sfumata che mai».

Davanti a queste riflessioni Paolo Streparava ti osserva come se fossi un marziano atterrato nella pianura bresciana. Ma in fondo cifre e ragionamenti a livello mondiale parlano anche di lui e della sua azienda: «Guardi che qui abbiamo fatto l’innovazione vera: sono almeno quindici anni che esistono fabbriche dove gli stabilimenti sono controllati a migliaia di chilometri di distanza. Altro che i bancomat, i conti online e i tagli al personale delle banche: noi siamo gente che al bar se la tira per il numero dei dipendenti. Continuiamo a investire nella risorsa umana, perché sul controllo di qualità ci sono uomini, non robot ».

All’Ucimu, l’associazione dei costruttori italiani di macchine utensili, dicono che Industria 4.0 è figlia del crollo degli investimenti per la recessione: «Il parco macchine dell’industria italiana ha l’età media più alta degli ultimi quaranta anni», e si spiega anche così il +22% degli ordinativi in Italia di macchine utensili nel primo trimestre 2017. Come dire che è una rivoluzione obbligata. «Industria 4.0 mi sembra più che altro un titolo da dare alla nuova tornata di incentivi – dice Streparava –. Non vorrei che alla fine molti miei colleghi comprino solo qualche computer per avere i fondi senza innovare davvero».

Sarà. Intanto Fausto Angeli, della Fiom di Brescia, tiene la guardia alta: «L’automazione può portare tagli degli organici o, bene che vada, un aumento dei carichi di lavoro». In realtà nel sindacato il dibattito è apertissimo, con il leader dei metalmeccanici Cisl, Marco Bentivogli, controcorrente: «I robot sono tra noi da oltre trent’anni, non mi sembra il caso di rimpiangere nelle fabbriche le esalazioni delle saldature. In Italia settori come l’elettrodomestico sono quasi spariti per lo scarso investimento nelle tecnologie. Fermare il progresso è velleitario, c’è uno spazio di lavoro e di nuovo lavoro da andare a prendere ripensando integralmente l’idea di impresa e le sue finalità, gli orari, la sostenibilità intelligente».

Ma è solo una delle tante risposte possibili. Come quelle che arrivano dai capannoni del Centro Studi Materiali, azienda un tempo nell’industria siderurgica pubblica e confluita poi nel gruppo privato Rina. Stampanti 3D per studiare le imperfezioni nelle turbine degli elicotteri; macchine che testano la tenuta del metallo di gasdotti o binari; un microscopio da 2 milioni di euro che scruta le polveri metalliche con una risoluzione che arriva ai filari atomici. A pochi chilometri da Roma, affacciata sulla tenuta presidenziale di Castelporziano, un’imprevedibile realtà dove ogni giorno si cerca di spostare più avanti la frontiera dell’innovazione. Un’incubatrice dell’Industria 4.0 che lavora per gruppi italiani ed esteri, da Arcelor Mittal all’Arvedi, da Fincantieri all’Eni, da Nippon Steel ad Ansaldo. «La siderurgia ha già scontato anni fa il prezzo della disoccupazione tecnologica – spiega Stefano Luperi, responsabile della linea di business – i nuovi robot non sostituiranno le squadre di operai. Adesso la sfida è sui materiali e sui processi di produzione: abbiamo venduto a un’azienda alimentare il sistema di controllo derivato da quello delle linee produttive della vergella, perché una barra d’acciaio non è poi così diversa da uno spaghetto». A guardare i macchinari di Csm, il pensiero torna a un’altra profezia che Martin Ford ha scritto nel suo libro raccontando la stampante progettata dall’University of Southern California e in grado di costruire in sole 24 ore le mura di cemento di una casa: «Nel mondo 110 milioni di operai lavorano nel settore edile. Le stampanti 3D potrebbero un giorno dar luogo a case migliori e più economiche, ma questa tecnologia potrebbe anche eliminare moltissimi milioni di occupati».

Catastrofismo allo stato puro, direbbe qualcuno. Magari evocando la battuta del premio Nobel Milton Friedman che, durante la visita al cantiere pubblico di un Paese asiatico dove c’erano tanti operai con il badile e pochi bulldozer, alle spiegazioni dei funzionari che parlavano di «progetto occupazionale » replicò chiedendo ironicamente perché, allora, agli operai non venisse consegnato un cucchiaio invece del badile. Ma eravamo negli anni Sessanta, praticamente un’era glaciale fa, e nel frattempo nella “granitica” infallibilità degli economisti si è aperta più di una crepa.

“Senza innovare avrei salvato 2 o 3 posti. Ma sarei uscito dal mercato e ne avrei persi 10”

“Sostituiranno anche i manager la Germania si sta già attrezzando”

JAIME D’ALESSANDRO

L’INTERVISTA. IL PREMIO NOBEL PER L’ECONOMIA PISSARIDES

DAL NOSTRO INVIATO

TRONDHEIM.

Per metà cipriota e per metà inglese. Sir Christopher Antoniou Pissarides, premio Nobel per l’Economia nel 2010 e professore alla London School of Economics, rappresenta bene le anime diverse dell’Europa. Al festival Starmus, appena conclusosi in Norvegia, lo hanno invitato per parlare della robotica e dei suoi rischi. Rischi che, secondo lui, alla fine sono soprattutto politici.

Circolano molte stime sull’impatto della robotica. Ma nessuna certa.

«Avrà un impatto vasto e non solo sui lavori fortemente ripetitivi o quelli legati al trasporto. Molti compiti che oggi svolgono gli uomini domani saranno svolti dalle macchine. La vera differenza con le rivoluzioni passate è che la robotica in futuro avrà effetto anche su quella fascia di popolazione con un alto grado di istruzione. In pratica sulla classe dirigente. Quei lavori non sono più al sicuro. Dalla finanza come nel management, la produttività dei computer è maggiore».

Crescerà la produttività ma per la prima volta non crescerà l’occupazione.

«Crescerà il tempo libero però. E per questo in Paesi avanzati come la Germania si stanno sperimentando forme diverse di occupazione. I governi dovranno giocare un ruolo importante: il loro primo compito sarà fare in modo che la transizione sia morbida, offrendo i servizi sociali necessari a quelle persone che perderanno il lavoro e aiutandole a ricollocarsi. E, nel frattempo, fornendo un reddito minimo garantito».

E i soldi necessario dove li dovrebbero prendere?

«Ovviamente dai redditi più alti e da quelle aziende che avranno il maggior beneficio dalla robotica. Che dovranno pagare le tasse e non eluderle. Altrimenti si andrà verso la diseguaglianza che è il rischio maggiore. I governi devono agire rapidamente. Ci saranno delle resistenze, come stiamo già vedendo negli Stati Uniti, contro la ridistribuzione della ricchezza. Perché i politici dipendono molto dalle donazioni dei più facoltosi e delle lobby. Eppure è quella l’unica strada».

Pensare a un governo che agisca rapidamente su un fronte del genere sembra fantascienza, più della robotica.

«Eppure ne esistono. Prenda il Paese dove ci troviamo ora, la Norvegia. Il problema nei Paesi più a sud, Italia e Grecia in primis, è che non c’è fiducia nelle istituzioni e nelle loro capacità di fornire dei servizi adeguati. E questo è un ostacolo vero. Perché affrontare con successo la rivoluzione della robotica significa avere una vera classe politica».

PRESENTE E FUTURO

Parla Monsignor Ravasi: fede e scienza devono allearsi per battere la superficialità del momento

“La tecnica corre troppo e ci cambierà l’anima”

ELENA DUSI

ROMA.

«La tecnologia corre e ci propone nuovi mezzi con una velocità che la teologia e gli altri canali della conoscenza umana non riescono a seguire». Il cardinale Gianfranco Ravasi, 74 anni, teologo, biblista, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, non è però uomo che si dia per vinto. Con il “Cortile dei Gentili” e il “Tavolo permanente per il dialogo fra scienza e religione” sta cercando “alleati” fra coloro che hanno ancora fiducia nell’uomo e nel suo pensiero. «Atei, scienziati, persino chi ancora crede nelle ideologie. Non è più tempo di contrapposizioni ma di dialogo». Nell’ultimo incontro del “Tavolo” si è parlato di intelligenza artificiale e del rapporto fra umani e umanoidi.

Perché questo dialogo fra fede e scienza?

«Religione e scienza sono spesso considerati magisteri indipendenti, due rette parallele. E dal punto di vista del metodo è giusto che sia così. Ma condividono lo stesso soggetto e lo stesso oggetto. Non possono non incontrarsi, prima o poi».

Scienza e fede sono due tonalità di una stessa musica?

«La conoscenza del mondo da parte dell’uomo avviene attraverso molti canali: la scienza e la razionalità, ma anche la teologia, l’estetica, l’amore, l’arte, il gioco, il simbolismo, che è poi il primo modo di conoscere che abbiamo da bambini. Perderli o semplificarli vuol dire impoverirsi. E purtroppo è quello che sta avvenendo oggi».

Per colpa della scienza?

«No, per colpa dell’ignoranza. Stiamo vivendo una globalizzazione della cultura contemporanea dominata solo dalla tecnica o dalla pura pratica. C’è, ad esempio, una sovrapproduzione di gadget tecnologici di fronte alla quale non riusciamo a elaborare un atteggiamento critico equilibrato. Ci ritroviamo in un’epoca di bulimia dei mezzi e atrofia dei fini. La formazione scolastica e universitaria si occupa troppo poco degli aspetti relativi all’antropologia generale. Così, l’insegnamento di arte, letteratura, greco e latino, filosofia viene progressivamente ridotto».

Con quali conseguenze?

«Ci ritroviamo spesso appiattiti, schiacciati su un’unica dimensione. Un certo uso della scienza e della tecnologia hanno prodotto in noi un cambiamento che non è solo di superficie. Se imparo a creare robot con qualità umane molto marcate, se sviluppo un’intelligenza artificiale, se intervengo in maniera sostanziale sul sistema nervoso, non sto solo facendo un grande passo avanti tecnologico, in molti casi prezioso a livello terapeutico medico. Sto compiendo anche un vero e proprio salto antropologico, che tocca questioni come libertà, responsabilità, colpa, coscienza e se vogliamo anima».

La scienza corre troppo?

«Non tanto la scienza, quanto la tecnologia: corre e ci propone nuovi mezzi con una velocità che la teologia e gli altri canali della conoscenza umana non riescono a seguire. Per questa via si può finire in una civiltà mediatica e digitale che sta diventando totalizzante. Parliamo di transumanesimo come una delle paure del futuro, ma per certi versi è già iniziato. I nativi digitali sono funzionalmente diversi rispetto agli uomini del passato. Capovolgono spesso sia il rapporto fra reale e virtuale, sia il modo tradizionale di considerare vero e falso. È come se si ritrovassero dentro a un videogioco. Inoltre, l’uomo, che è sempre stato un contemplatore e custode della natura, oggi è diventato una sorta di con-creatore. La biologia sintetica, la creazione di virus e batteri che in natura non esistono sono un’espressione di questa tendenza. Tutte queste operazioni hanno implicazioni etiche e culturali che devono essere considerate».

Scienza e fede come possono collaborare?

«Fra spiritualità e razionalità, tra fede e scienza, può instaurarsi una tensione creativa. Diceva Giovanni Paolo II che la scienza purifica la religione dalla superstizione e la religione purifica la scienza dall’idolatria e dai falsi assoluti».

L’ecologia è un altro terreno di incontro?

«Gli accordi di Parigi sono ora in difficoltà. Anche molti “laici” si riconoscono invece nella Laudato si’ di papa Francesco, che mi pare stia diventando il punto di riferimento della questione ecologica. D’altronde è scritto nei primi passi della Genesi che Dio ha affidato la Terra all’uomo per “coltivarla” ma anche per “custodirla”».

I suoi incontri con i laici ormai proseguono da qualche anno. Qual è il suo bilancio?

«Il fondatore del cristianesimo, Gesù di Nazaret, era un laico, non un sacerdote ebraico. Egli non ha esitato a formulare un principio capitale: “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. La contrapposizione fra clericali e anticlericali ormai è sorpassata. Alcuni aspetti della laicità ci accomunano tutti e la teologia ha smesso da tempo di considerare la filosofia e la scienza solo come sue ancelle. I problemi piuttosto sono altri. Semplificazione, indifferenza, banalità, superficialità, stereotipi, luoghi comuni. Una metafora del filosofo Kierkegaard mi sembra adatta ai tempi di oggi: la nave è finita in mano al cuoco di bordo e ciò che dice il comandante con il suo megafono non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani. È indispensabile riproporre da parte di credenti e non credenti, i grandi valori culturali, spirituali, etici come shock positivo contro la superficialità ora che stiamo vivendo una svolta antropologica e culturale complessa e problematica, ma sicuramente anche esaltante».


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