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Se i sogni di un laureato si infrangono su un test

lettera

13/08/2019
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Corriere della sera

Giulio Maira

Caro direttore, da tanti anni faccio il neurochirurgo e il professore universitario; mi sono occupato di università, studenti e ricerca per quasi tutta la vita. Nel decidere di scrivere questo articolo ho preso spunto da tre cose che mi sono accadute negli ultimi giorni: la partecipazione a una seduta di tesi di laurea in Medicina, un colloquio con una giovane neolaureata con il sogno di fare la pediatra ma preoccupata per ciò che il futuro le avrebbe riservato, e la lettura sul Corriere della Sera di domenica di un bell’articolo di Giovanni Lo Storto («La lezione dei nostri figli: mai smettere di imparare»).

La partecipazione alla seduta di laurea è stata una di quelle esperienze che tutti coloro che vogliono conoscere il valore dei giovani di oggi dovrebbero fare. Venti studenti, la maggior parte donne, come succede in quasi tutte le sedi di Medicina, discutevano le loro tesi. Ho assistito a una straordinaria dimostrazione di bravura, capacità, impegno, fame di conoscenza e amore per il lavoro. Ognuno di loro raccontava i risultati di un lavoro impegnativo fatto di giornate e notti passate a studiare, analizzare dati, approfondire conoscenze in campi attinenti alla specialità che lungo i sei anni del loro corso di laurea avevano scelto, che avevano ritenuto più congeniale alla loro sensibilità, alle loro fantasie, alla loro capacità, ai loro sogni di futuri medici o ricercatori affermati.

Ascoltandoli, apprezzando la passione con cui presentavano i loro risultati, pensavo che se fosse dipeso da me avrei dato subito a ognuna/o di loro una borsa di studio perché potessero continuare quelle ricerche che con tanta passione stavano descrivendo. E invece no! La realtà è che per molti di loro di quella scelta, di quei sogni, non rimarrà nulla. Perché un regolamento ministeriale li obbligherà a partecipare a un concorso nazionale in cui saranno valutati da una macchina, la quale dirà loro di rispondere a quiz la maggior parte dei quali nulla avrà a che fare con la specialità che vorrebbero fare. E sulla base del punteggio ottenuto, sapranno se potranno iscriversi alla specialità sognata o saranno obbligati a iscriversi a una specialità diversa, nella quale certamente si impegneranno meno e daranno un risultato meno brillante. E se saranno tra i fortunati che potranno scegliere la loro specialità, probabilmente dovranno andare in un’altra sede universitaria, con professori e progetti di ricerca diversi. Talvolta con grave disagio per il giovane medico e per le famiglie.

Quando ero io a occuparmi della scuola di specializzazione, nell’istituto che dirigevo, conoscevo tutti i ragazzi che si presentavano, perché erano stati interni con noi per almeno due anni, perché avevo visto come si comportavano con i malati e avevo potuto capire come e quanto si fossero impegnati nel preparare la tesi, quale apporto personale avevano dato, con quale passione l’avevano affrontata. E se qualche giovane medico che non conoscevo faceva domanda, con il colloquio e con lo studio del suo curriculum ero in grado di valutarne l’interesse e l’attitudine alla professione che aveva scelto, tenendo presente il quoziente emotivo (Qe) e non solo quello intellettivo (Qi).

Oggi si è valutati da un computer, una forma di intelligenza artificiale che utilizza straordinari algoritmi ma che non parla con uno studente, non si emoziona e non sa valutare le sue emozioni; ma soprattutto che non avrà mai quello che si chiama buon senso, cioè l’insieme di tutti i big data cognitivi ed emozionali che ogni singolo docente ha incamerato nel corso della sua vita professionale e che possiamo chiamare esperienza. Sono esami in cui si valuta soprattutto una preparazione generale mnemonica e non una capacità di ragionamento e, perché no, di creatività e di fantasia.

E poi mi chiedo, che senso hanno gli internati e la preparazione di una tesi di laurea? L’internato è il momento in cui per la prima volta si incontra un malato e si svolge un’attività clinica. Ha senso perché introduce gli studenti alla medicina vera e permette loro di sviluppare un interesse, di capire cosa vorranno fare nella vita. La tesi è il momento in cui il laureando affronta, per la prima volta, un tema di ricerca correlato alla disciplina scelta, spesso la prima pubblicazione della vita. È il risultato di un impegno preso con un docente che ha fatto amare loro una materia. Ed è questo il compito dell’università e di un professore. Preparare gli studenti a essere bravi professionisti e buoni ricercatori, inculcare loro l’amore verso una disciplina, spingerli a sviluppare la fantasia e la creatività, a fare ricerca perché nulla va dato per scontato e tutto può essere migliorato, a non ritenere che un sapere sia per sempre o che un maestro ne sappia sempre di più. Gli anni dell’università, i primi contatti con un maestro e con una disciplina sono fondamentali per fare nascere un sogno. Sono queste le cose da cui dipenderà l’amore e la passione con cui affronteranno il lavoro. Come ha scritto Primo Levi: «L’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità».

Non togliamo ai ragazzi i sogni, l’anelito a perseguire quanto hanno scelto dopo sei anni di studio. Capisco che le ragioni della scelta di un concorso nazionale possono essere importanti, ma sono più importanti dei sogni di un giovane? E non sarebbe bene tenere conto, in qualche modo, anche di questi? Come dice Lo Storto, «tocca dunque a noi che agiamo nella formazione, nella scuola, nell’università, nella ricerca, ripensare i criteri di valutazione dei nostri ragazzi... Il voto secco non ci basta da solo, non ci racconta la persona intera, oltre al compito assegnato». Un semplice esame con dei quiz generici non può parlarci di persone, di sogni, di emozioni, di predisposizione e amore verso una disciplina.

La lezione dei nostri figli: mai smettere di imparare

di Giovanni Lo Storto

Ogni mamma e ogni papà sa quanto possa essere snervante rispondere alle domande dei bambini: «perché...?». Un team di ricercatori inglesi ha appurato che i piccoli pongono ai genitori, in media, 73 domande al giorno, iniziando non appena articolano qualche parola e raggiungendo l’intensità massima a quattro anni. «Perché...?» è parola magica che esprime la meraviglia della curiosità, la percezione, tutta nuova, della realtà. Padri e madri salutano dapprima con favore lo scemare dei perenni «perché...?», di solito ai primi giorni di scuola, rimpiangendo col tempo però quella magica stagione: smettere di chiedere, infatti, non significa sapere tutto, bensì avvertire meno la fame di conoscenza.

Come mantenere l’innocenza, il metodo, di quei «perché» ingenui da filosofi in erba? Cosa significa, di preciso, conoscere per noi adulti? Come continuare ad apprendere, finita la scuola? Per capirlo, partiamo dal concetto di «eccellenza», da tempo associato a concetti come «formazione» e «apprendimento». Eccellere significa esser bravi in qualcosa, svolgere un’attività meglio di tanti, grazie a duro lavoro, dedizione, doti personali, circostanze, fortuna. Da adulti l’eccellenza professionale e formativa è spesso associata alla specializzazione, il dominio del sapere in campi definiti.

L’eccellenza così intesa, diventa, a ben guardare, nemica dell’innovazione. Una formazione tradizionale, mirata a creare professionisti-specialisti, inibisce la creatività, virtù cardinale per governare il lavoro del XIX secolo. L’eccellenza del voto massimo, che induce gli studenti a considerare la formazione come una gara di performances, va maneggiata con cautela. Da secoli concepiamo parametri esatti per il successo all’università o al lavoro, ma la creatività si trova spesso giusto in coloro che in inglese si definiscono misfits, individui che mal si adattano a format sociali precostituiti. Non conformiste o poco comprese, queste personalità generano di frequente innovazioni radicali. Trovarsi a disagio con le regole prestabilite permette, di riflesso, di mettere alla prova ciò che è dato per scontato dai più. La presunta «debolezza», vedi i geni introversi Wittgenstein, Turing e Nash, diventa forza che supera i limiti banali dell’ordinario. Secondo il Ceo di Cisco, John Chambers, un quarto dei grandi manager soffre di una qualche forma di dislessia, compresi Ingvar Kamprad, fondatore di Ikea, e Richard Branson patron di Virgin. L’Antico Testamento offre la stessa morale, Mosè, balbuziente, ha bisogno del fratello Aronne per dialogare con il Faraone. Gli studiosi contemporanei ritengono che, data una barriera oggettiva, per esempio un disturbo che impedisca di leggere speditamente, ciascuno di noi sviluppi in parallelo modi alternativi per esprimere creatività.

Riferendosi a sua volta al mondo biblico, lo scrittore canadese Malcolm Gladwell analizza la vittoria di Davide sul gigante Golia, frutto di una strategia che trasforma la debolezza in forza. Davide vince perché elude il corpo a corpo in cui sa di non potere aver scampo, ma gioca sull’agilità, spogliato dalla pesante armatura. Davide vince per fede in Dio e facendo leva sulle abilità che possiede, senza fingersi il guerriero che non è.

Golia dei nostri tempi è la macchina, costruita dall’uomo stesso: insaziabile nel divorare valanghe di dati e informazioni, digeriti in un baleno a produrre «Intelligenza artificiale». Homo Sapiens e computer hanno due curve diverse di crescita, lineare l’uomo, esponenziale la macchina. Come Davide noi non potremo più competere con la potenza del machine learning, capace di accrescere senza limiti il patrimonio di cognizioni digitali. Resteremo invece determinanti nel metter in partita quel che Dov Seidman, studioso di etica, definisce moralware, mettere in gioco valori morali contrapposti all’intelligenza del software.

Le macchine intelligenti devono sempre esser bilanciate da maggiore, non minore, componente umana, salda nel collegare i dati a relazioni ed emozioni. Chiave del futuro sarà il Qe, quoziente emotivo, parallelo al Qi, quoziente intellettivo. Tocca dunque a noi che agiamo nella formazione, nella scuola, nell’università, nella ricerca, ripensare i criteri di valutazione dei nostri ragazzi, imparando a premiarli quando escono dagli schemi fissi, con inediti ragionamenti creativi. Il voto secco non ci basta da solo, non ci racconta la persona intera, oltre al compito assegnato.

Il cerchio si chiude infine e, a differenziarci dalle macchine, sarà la capacità di domandarci il «perché...?» delle cose, come da bambini. Per riuscirci non ci servirà una formazione statica, ma dinamismo e flessibilità.

Dopo la scuola, toccherà al lavoro subire metamorfosi turbolente, con la scomparsa delle antiche professioni e l’emergerne di sconosciute. Se la formazione avrà il coraggio di premiare con l’eccellenza anche la creatività, se oltre alle nozioni di base daremo in ogni classe gli strumenti originali per generare interazioni creative, gli studenti saranno i nuovi cittadini dell’epoca della trasformazione. Apprendere senza soste: a questo futuro dobbiamo avvezzare i nostri figli, tenendoli capaci dello stupore creativo perenne di un «perché...?». Non potranno competere con le macchine su calcolo ed esecuzione, ma risulteranno vincenti grazie a creatività e innovazione, come Davide contro Golia.

Direttore generale Luiss


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