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Scuola digitale, ecco tutto quello che non funziona

Miliardi di euro investiti in tecnologie "pesanti" che rischiano di diventare presto obsolete. Modelli didattici rimasti antichi. Poco controllo sulla qualità delle proposte che arrivano ai singoli istituti. Sempre più ricerche ed esperti chiedono di ripensare la moda dei tablet in classe

09/01/2018
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L'Espresso

Francesca Sironi

Un computer su ogni cattedra, una eLavagna in ogni aula, un eBook in ogni zaino. E poi tablet, smartphone, videogame. Non c’è ministro all’Istruzione degli ultimi cinque governi che non abbia messo in primo piano la necessità di far avanzare la tecnologia nelle classi.

Senza ombre o dubbi sulla priorità del programma, alla voce “digitale” sono state indirizzate risorse per due miliardi di euro dal 2008 a oggi: finanziamenti di Stato ed europei destinati prima soprattutto al Sud e raccolti poi dal governo di Matteo Renzi in un unico piano da un miliardo di euro, inciso di fianco alla riforma della “Buona Scuola”.

È un tesoro imponente, a cui vanno aggiunte le spese sostenute dai singoli istituti per pagare la connessione, o i tablet adottati nei piani formativi autonomi; e i costi delle famiglie per app, materiali, libri digitali. Un tesoro investito con il passo dell’urgenza, senza abbastanza domande, forse, sui modi e soprattutto i perché di questo torrente di schermi sui banchi. Sempre più esperti e studiosi stanno cercando ora di far ascoltare alcune domande. Lo spartiacque è nello studio con cui l’Ocse nel 2015 ha indicato risultati altalenanti,quando non negativi, sull’apprendimento, dei sistemi scolastici che avevano abbracciato un uso massiccio di device.

Una nuova ricerca, che verrà pubblicata nei prossimi mesi sulla rivista Policy&Internet dell’Oxford Internet Institute, conferma quello scenario. È firmata da un gruppo coordinato da Marco Gui dell’università Bicocca e raccoglie dati sull’Italia. Concludendo ugualmente come l’impatto di lavagne interattive e wifi sia stato insignificante in termini di risultati, in italiano e matematica, da parte degli studenti, per il periodo 2010-2014.

Non basta la quantità, si discute, certo, servono idee sulla didattica e cambiamenti nel modo in cui si conducono le lezioni. E la letteratura scientifica combatte sul tema da più di un decennio, con elementi contrari o a favore di ogni investimento in tecnologia per la scuola. Ma ad alunni e insegnanti, che ogni mattina si trovano di fronte a un mercato sempre più affollato di proposte hi-tech, servono capisaldi validi. E domande che riguardano la libertà e le possibilità di innovare per avvicinare davvero i ragazzi al futuro, e non riportarli piuttosto al passato.

PESANTI O LEGGERI
Innanzitutto, i fondi. La voce-guida dell’innovazione didattica, in Italia, è stata a lungo l’acronimo “Lim”: Lavagna interattiva multimediale. Nel 2008 Mariastella Gelmini vi investì 93 milioni di euro. Gran parte del mezzo miliardo destinato alle scuole meridionali attraverso i fondi europei è servito a portare nelle classi le Lim.Adesso, sembrano scomparse. Nel piano del governo di Matteo Renzi il lemma non ricorre una sola volta. Sono ormai ovunque, non servono quindi altri fondi per distribuirle? Non proprio: meno della metà delle aule italiane ha una lavagna multimediale. Solo il 6,1 per cento ha un proiettore interattivo. Dove sono finite le rottamatrici dei gessetti? Una ricca ricerca pubblicata dal Dipartimento per la coesione nel 2015 le ha cercate in ogni istituto del Mezzogiorno. Trovandole al loro posto. Ma anche in corridoi, stanze laterali, spesso spente o sfruttate semplicemente come parete, fuori servizio. «È una difficoltà che riguarda tutto il paese», racconta Simone Giusti, insegnante e ricercatore, fra gli autori del dossier: «in questi giorni frequento molti istituti in Toscana, trovando lavagne con lampade fulminate e quindi inattive». Perché sostituire le luci può arrivare a costare complessivamente decine di migliaia di euro. E i soldi per la manutenzione ai dirigenti mancano. Risultato: in standby.
Si definiscono tecnologie “pesanti”: costa molto introdurle, e ugualmente aggiornarle. Con il doppio rischio che diventino presto obsolescenti agli occhi di ragazzi abituati ad avere in mano device che si rincorrono sulla novità. Così, le Lim «paiono aver perso la loro carica di innovazione», riflette Giusti.
«Di certo questo grande investimento per ora non sembra sia servito a colmare il gap nei risultati Invalsi fra Nord e Sud, ad esempio; anzi, per alcuni versi pare averlo approfondito», commenta Marco Gui, l’autore delle ricerca che uscirà a breve con Oxford: «Gli studi confermano che le tecnologie hanno spesso un impatto inferiore rispetto ad altre scelte didattiche». Insomma, a cambiare dovrebbe essere l’approccio, più che lo strumento tecnico che lo sostiene. Così la pensano ad esempio i sostenitori delle “flipped classroom”, ora in auge nei dossier sulla didattica, dove le lezioni sono ribaltate, appunto, e si sfruttano le ore in classe per discutere del lavoro portato avanti a casa.
L’altro crocevia dell’innovazione sono stati in questi anni i libri digitali: obbligatori per legge dal 2014, raramente sfruttati. In molti lo hanno definito un flop, con i contenuti disponibili nelle piattaforme create dagli editori meno avanzati rispetto a quanto si trovi spesso gratuitamente online; e sui blog i genitori si disperano fra password e dvd allegati ai tomi. Nel suo ultimo bilancio, uno dei principali editori per la scolastica, Mondadori, vi dedica più o meno una sola riga: «il venduto dei libri in formato digitale si conferma non significativo».
«Il libro cartaceo è ancora apprezzato da studenti e docenti, pur con specifici contenuti digitali integrativi», scrivono in versione più rosea gli storici editori Lattes. Alla Pearson, un fatturato in incremento, 102 milioni di euro nel 2016, e 270 agenti «debitamente formati e dotati di iPad per mostrare i prodotti», sembrano invece più convinti della prossima evoluzione in eBook multimediale dell’editoria scolastica.
Il piano varato dall’ex ministro Stefania Giannini stabilisce nel frattempo nuovi obiettivi. Adesso l’urgenza sta nella capacità di connessione delle scuole. Nella relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla digitalizzazione, oltre alle difficoltà nelle iscrizioni online al Sud e al caos dell’algoritmo sulla mobilità dei docenti, si ricordano i 103 milioni di euro stanziati dal Miur proprio per portare la fibra in ogni istituto. Ai parlamentari una dirigente ha spiegato che sono già stati raggiunti oltre seimila edifici, realizzate 19 delle 35 azioni previste dal programma. Con una richiesta di accesso agli atti all’Osservatorio digitale del ministero però, Agi ha mostrato nel frattempo come solo il 13 per cento degli istituti sia raggiunto dalla fibra, con il 2,61 per cento dell’Umbria, e il 35 dell’Emilia Romagna. Pur navigando in gran parte sotto i 10mbps, i dirigenti si trovano a pagare dai tre ai diecimila euro l’anno per la connessione. In soccorso, Roma ha stanziato 10 milioni di euro per le bollette.

ATTIVI O PASSIVI
Dove non arriva l’iniziativa centrale, le scuole si lanciano autonomamente nelle ultime novità digitali. Esistono fiere specializzate nel proporre soluzioni hi-tech alla didattica. Fra le proposte più all’avanguardia adesso si fanno strada i contenuti “immersivi”: realtà virtuali dentro cui i ragazzi si muovono usando visori appositi, esplorando lezioni “aumentate”, individualmente. Dal 16 al 19 novembre Lucca ha ospitato un convegno solo su questo nuovo universo, “Immersivitaly”, promossa da una fondazione bancaria e da Indire, l’Istituto nazionale per l’innovazione e la ricerca educativa del Miur. Di fianco all’istituzione c’erano così dibattiti e dimostrazioni in diretta di Acer, MedStore, Microsoft, Samsung, compresa una caccia di Pokémon Go e proposte per il turismo remoto con i droni.
«C’è molto entusiasmo. Ma io resto scettico», commenta Giusti: «Vedo alunni trasformarsi in fruitori, spettatori passivi di spettacolini didattici. Siamo sicuri che serva?». Per favorire la partecipazione attiva degli alunni alla tecnologia, si cita spesso il coding, adesso, ovvero l’insegnamento della programmazione insieme al pensiero “computazionale”, logico, capace di affrontare problemi in modo innovativo - è anche una delle priorità della nuova Scuola Digitale. «L’ora del codice» nata nella Silicon Valley è stata abbracciata così con entusiasmo nelle scuole, fra giochi, corsi e attività di un giorno o annuali. In mezzo a laboratori pratici e videogame virtuali. Privato e pubblico. Accenture propone ad esempio un programma che ha al centro un robot che può esplorare l’universo al posto dell’umanità. Attivo o passivo?

MEZZI O FINE
Se queste sono le soluzioni più avanzate, nelle scuole si alternano soprattutto, oggi, iniziative autonome per adottare i tablet. Molti docenti sono entusiasti, così le loro classi, «ma il tablet è ancora un salto nel buio», discute Gui: «Bisognerebbe evitare che nella fretta di innovare si finisca per farsi trascinare in esperienze che non sono per forza positive. Siamo ancora di fronte a una corsa all’equipaggiamento non sempre consapevole». C’è chi crede nella loro potenzialità multitasking. Chi al contrario insiste sul bisogno di restituire agli alunni spazi di concentrazione. «I nostri bambini hanno dei tablet, dei computer, degli smartphone, della tecnologia. Da cui sono bombardati. Devono imparare a utilizzarla in modo intelligente ed evolutivo. Non adottarne una ulteriore che è ulteriore dipendenza e debito», scriveva un papà discutendo l’introduzione nella classe del figlio di un tablet che proponeva con un’app  esercizi, domanda e risposta, integrate nello strumento.
Insegnare a usare le tecnologie come un mezzo, e non un fine, fa parte delle convinzioni di Lorella Carimali, professoressa di matematica in un liceo scientifico di Milano, convintamente «contraria alle resistenze tout-court alla tecnologia, motivate dal non saper rischiare». «È ovvio che la scuola deve invece farsi carico di questa necessità: bisogna insegnare ai ragazzi a muoversi in maniera critica, anche e soprattutto con gli strumenti tecnologici».
Dimostrare di avere “Competenze digitali” da quest’anno sarà oltretutto un obbligo, in tutte le scuole, dalla quinta elementare alla terza media. Ma ancora mancano linee guida su quali competenze debbano essere valutate dai docenti e come. E gli insegnanti, a loro volta, sono ancora “in formazione” su questi argomenti. «Per me significa aiutare i ragazzi ad esempio a mettere in discussione le informazioni online», continua Carimali: «Con le seconde liceo stiamo scrivendo un testo teatrale sulle geometrie non euclidee. A gruppi di lavoro, gli studenti propongono dei passaggi cercando informazioni, verificando le fonti online, confrontando materiali. Dedico il laboratorio a questo, non a farli sforzare su alcuni programmi di matematica di cui non vedo il valore aggiunto».

VIRTUALE O REALE
Michele Capurso insegna psicologia dell’educazione all’Università di Perugia. «Sono stato fra i primi a usare le tecnologie per la didattica», racconta, «insieme ai bambini ricoverati in Oncologia: le videochat li aiutavano a studiare e giocare insieme, anche in isolamento». «Ora viviamo però con una pregiudiziale acritica a favore degli strumenti digitali che non sempre ha un supporto o una base scientifica», osserva. Poter usare mezzi differenti è fondamentale, ma è altrettanto importante spiegare perché è giusto investire in quello specifico strumento. Non bastano ragioni tautologiche,  dire “perché c’è”. «A volte rischiamo paradossalmente di tornare al passato, così, anziché guardare avanti. Di non innovare e perdendo anche il rapporto diretto, la discussione, l’interazione, che sono alla base dell’insegnamento».
Molti sostengono sia necessario usare device per restare vicini ai ragazzi, per non perdere la loro attenzione. È con gli smartphone che stanno scoprendo il mondo. «Ma la strada non è mettersi in competizione con i videogame», risponde: «L’equazione più stimoli = più apprendimelo è sbagliata. Per imparare il cervello ha bisogno di concentrazione, non di rumore». Bisogna saper rimettere l’insegnamento al centro, non cercare di ingegnerizzarlo. «Stiamo subendo una corsa in cui vediamo spesso quello che aggiungiamo - un tablet, una Lim- ma non quello che perdiamo» e su cui avremmo potuto invece puntare gli stessi fondi. «Penso alle gite come agli interventi contro la povertà, di cui è sicuro l’impatto negativo sulle possibilità scolastiche». E per insegnare coinvolgendo? «La tecnologia può servire. Ma a volte basterebbe portare i bambini fuori, in un museo, al bosco, non tenerli chiusi in classe. L’esperienza immersiva più potente che io conosca è la realtà».


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