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Scuola a distanza non vuol dire inclusione per tutti: per qualcuno è una condanna

Ma sono senza dubbio i ragazzi con disabilità a soffrire di più

08/04/2020
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Il Sole 24 Ore

Manlio Lilli

Archeologo e giornalista

  • “Insegno nella scuola che nella mia provincia ha il più alto numero di ragazzi disabili in proporzione al numero di studenti. Stiamo facendo il possibile, ma posso garantire che in molti casi questi studenti sono ora sulle spalle della sola famiglia, perché il servizio di assistenza alla persona e di inclusione didattica che lo spazio fisico della scuola poteva garantire loro è impossibile da replicare a distanza. Altro che scuola inclusiva per tutti”.

Daniele Lo Vetere, professore in un Liceo di Scienze Umane di Siena, lo scorso 17 marzo ha scritto una lettera al Sole 24 Ore. Esternando le sue forti perplessità sulla tesi che la scuola a distanza sia un’occasione unica per una didattica inclusiva, per tutti. Già, perché nella confusa agitazione che la didattica a distanza ha creato in gran parte delle scuole italiane, presidi e insegnanti hanno provato a fare ordine. Ciascuno per quanto di sua competenza. Anche se non ovunque.

In ogni caso, spesso preoccupandosi di uniformare le piattaforme utilizzate per non interrompere le diverse attività, che fino a qualche settimana prima erano svolte nelle classi. Dandosi da fare per organizzare un orario settimanale, che seppur adattato, offrisse ai ragazzi lezioni di tutte le discipline. Così, anche se con difficoltà generali e difformità nella resa, la scuola sta continuando a funzionare. Insomma il servizio prosegue.

Certo non per tutti. I ragazzi che faticavano anche prima ora arrancano, nella migliore delle ipotesi. Ma sono senza dubbio i ragazzi con disabilità a soffrire di più. Molto spesso nonostante gli sforzi di molti dirigenti scolastici e di tanti insegnanti di sostegno. Perché la disabilità è un universo costituito da eccezioni con le quali non è agevole lavorare nelle scuole reali. Quelle anche con aule dedicate e con personale che supporta l’insegnante di sostegno. Quelle nelle quali ci si può spostare da uno spazio all’altro, per necessità. Quelle nelle quali, quando possibile, i sensi aiutano a lavorare.

Come se ci si potesse rapportare con un ragazzo autistico come lo si fa con uno che semplicemente ha la tendenza a distrarsi. Come se fosse possibile richiedere ad un ragazzo con un deficit dell’apprendimento le medesime performance di un altro che non ha acquisito un proprio metodo di studio. Proprio per queste ragioni e moltissime altre è necessario predisporre all’inizio di ogni anno scolastico per quei ragazzi un Piano Educativo Individualizzato. Perché ognuno di quei ragazzi è una particolarità. Alle quali offrirsi con professionalità, certo. Ma anche con l’empatia necessaria. Tanto più ora.

Non servono piattaforme, che evidentemente molti non riescono a gestire. Poi per assistere a lezioni alle quali molti, evidentemente, non possono stare dietro. Sono inutili compiti assegnati, ma sostanzialmente che non possono essere eseguiti senza un aiuto. Queste modalità non vengono incontro alle reali esigenze delle diverse disabilità ma costituiscono il velo dietro il quale si nascondono diverse scuole.

A quei ragazzi servirebbe altro. Vicinanza autentica. Costruita con azioni reali. Da parte innanzi tutto degli insegnanti di sostegno, ma anche dei colleghi curricolari. Talvolta così presi dall’organizzare lezioni online e attività varie da dimenticare che i ragazzi con disabilità certificate fanno parte a tutti gli effetti delle loro classi. D’altra parte “resta inteso che ciascun alunno con disabilità, nel sistema educativo di istruzione e formazione italiano, è oggetto di cura educativa da parte di tutti i docenti e di tutta la comunità scolastica. E’ dunque richiesta una particolare attenzione per garantire a ciascuno pari opportunità di accesso a ogni attività didattica”. Lo dice la nota del Miur del 20 marzo.

Serve attivare ogni forma di comunicazione possibile. Per raggiungere concretamente quei ragazzi. Per non abbandonarli alle famiglie, già provate dalla mancanza degli aiuti che generalmente ricevevano, prima che scattasse l’emergenza.