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Salviamo lo scienziato prigioniero a Teheran

C'è  un uomo che sta camminando verso la pena di morte. La vita di un ricercatore, il cui unico “torto” è aver accettato un invito dall’Università di Teheran, è nelle mani del governo iraniano.

03/03/2017
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la Repubblica

Elena Cattaneo

C'è  un uomo che sta camminando verso la pena di morte. La vita di un ricercatore, il cui unico “torto” è aver accettato un invito dall’Università di Teheran, è nelle mani del governo iraniano.

IL REGIME di Teheran lo accusa di “collaborazione con governi nemici”. Il suo nome è Ahmadreza Djalali, un medico di 45 anni residente in Svezia. È stato docente e ricercatore in Medicina dei disastri presso l’Università del Piemonte Orientale, presso il Karolinska Institutet di Stoccolma, nonché presso la Vrije Universiteit Brussel. Il 24 aprile 2016 è stato arrestato. Ora è nel carcere di alta sicurezza Evin di Teheran. In questi mesi, ha condotto tre scioperi della fame per affermare la propria innocenza. Dalle ultime notizie avrebbe iniziato anche uno sciopero della sete. Le sue condizioni di salute sembrano esser peggiorate velocemente. Ad aprile sarà passato un anno senza che sia stato ancora fissato il processo. Benché l’accusa non sia stata formalizzata, il giudice si è espresso già a favore della condanna a morte. Dopo la fine straziante di Giulio Regeni nel pieno della sua attività accademica, un altro ricercatore rischia la vita. Qualunque sia il suo passaporto e la sua storia accademica, al pari di Giulio è un ricercatore sequestrato al suo lavoro e alla sua vita. A differenza di Giulio, del quale si persero tragicamente le tracce per ricomparire quando era troppo tardi, per questo ricercatore sappiamo bene dove sia e cosa rischia. Così come per Giulio è necessario continuare a chiedere verità e giustizia, per Djalali non possiamo lasciare oggi nulla di intentato perché abbia salva la vita.

Nella storia non si contano gli intellettuali che nei contesti di sistemi politici totalitari hanno pagato con la vita la difesa della ricerca accademica, libera e incondizionabile, chiave delle libertà civili e politiche.

È necessario che i paesi che traggono continui benefici dalla libera comunità della ricerca, diano dei segnali chiari e intransigenti a quelli dove le libertà fondamentali latitano o vengono ogni giorno disattese. La reclusione di un ricercatore, di chi non coltiva altro che la conoscenza, deve essere vissuta dalla comunità internazionale come un attacco portato al cuore del nostro modello di convivenza. Un ricercatore recluso deve dare scandalo, deve essere vissuto dalla comunità degli Stati al pari di un’aggressione al corpo diplomatico o ad un soldato in servizio di peacekeeping. L’attacco a chi è impegnato nella ricerca altro non è che un’aggressione ad un “casco blu” al servizio della conoscenza. Quanto accaduto va oltre la già drammatica limitazione della libertà fisica della persona e oltre la spaventosa inquietudine rovesciata sulle spalle delle sfortunate vittime e dei loro familiari. Qui si aggredisce anche la libertà di conoscere il mondo cui ciascuno di noi fa spontaneo affidamento per affrontare il futuro.

Insieme alla comunità accademica nazionale e internazionale, alle associazioni per i diritti umani da tempo impegnate, ai singoli cittadini che a queste mobilitazioni hanno dato corpo sottoscrivendo in centinaia di migliaia gli appelli alla liberazione, chiedo pubblicamente alle nostre autorità a partire dal Ministro degli esteri, Alfano e all’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari Esteri, Mogherini, di continuare a percorrere ogni iniziativa utile affinché Djalali sia liberato, possa tornare dalla famiglia e proseguire la sua attività scientifica per tutti noi. C’è ancora (poco) tempo perché al suo nome possano essere abbinati articoli scientifici anziché un devastante necrologio di cui, ove silenti e inermi, porteremmo — inevitabilmente — la firma.

L’autrice è docente all’Università di Milano e senatrice a vita


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