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Reyneri “Stiamo pagando l’assenza di collegamenti tra la scuola e le aziende”

Intervista al sociologo della Bicocca

12/09/2020
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la Repubblica

Rosaria Amato

I giovani pagano la mancanza quasi totale di meccanismi di transizione tra il sistema formativo e il mondo del lavoro. E in un momento di crisi come questo, il flusso si blocca del tutto». Per Emilio Reyneri, professore emerito di sociologia del Lavoro all’Università di Milano Bicocca, la causa dei 416 mila posti di lavoro persi dagli under 35 nel secondo trimestre di quest’anno è più strutturale che dovuta al Covid- 19, dipende da un sistema che non funziona, dalla «separatezza tra il mondo della scuola e dell’università e quello delle imprese».

Lei non pensa quindi che ci sia stato un effetto distorsivo del blocco dei licenziamenti?

«Beh certo quando un’impresa è in difficoltà ferma le nuove assunzioni.

Ma il vero problema è strutturale. In Italia mancano i percorsi professionalizzanti, e le imprese non vogliono, forse non possono accollarsi la formazione dei neoassunti. Soprattutto le aziende piccole vogliono lavoratori già formati. I Paesi che, a cominciare dalla Germania, hanno affrontato questa questione, hanno costruito una serie di passerelle tra i due sistemi, ma questo presuppone anche che le imprese siano lungimiranti, e che siano anche abbastanza grandi. Infatti le imprese che dedicano maggiori energie alla formazione sono le multinazionali».

I giovani però sono stati penalizzati anche dal fatto che sono molto più precari degli anziani.

«Buona parte dei lavori temporanei sono uno step necessario per poi essere assunti. Le imprese assumono in questo modo. Quando ho visto che con la legge sul reddito di cittadinanza venivano incentivate solo le assunzioni a tempo indeterminato ho pensato che a scriverla fosse stata una persona che non conosce il funzionamento del mercato del lavoro. Le imprese hanno bisogno di ‘provare’ a lungo un f

In Italia le imprese non vogliono, forse non possono, accollarsi la formazione dei neoassunti

g lavoratore prima di assumerlo».

E quindi non c’è un modo per evitare che siano i giovani le vittime principali della pandemia?

«È difficile dirlo, l’unica possibilità forse è quella di incentivare le trasformazioni dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Ma il cuore del problema è la formazione dei giovani. C’è una correlazione fortissima tra il tasso di disoccupazione giovanile e la percentuale di percorsi scuola-lavoro: emerge chiaramente dai dati degli altri Paesi Ue. E anche i percorsi universitari devono essere più attenti alle competenze utili per le imprese. Noi abbiamo l’idea che la nostra scuola sia la migliore al mondo, e sicuramente abbiamo molti giovani e brillanti laureati, ma il livello medio è piuttosto basso, ed è scandaloso che gli insegnanti rifiutino la valutazione delle competenze attraverso i test Invalsi».

I dati Istat mostrano anche una forte penalizzazione delle donne e del Mezzogiorno.

«Con la ripresa tra il 2013 e il 2014 l’occupazione femminile è aumentata molto. Ma sarebbe bastato sollevare un attimo il tappeto per vedere che sotto c’ era molto part-time involontario. Inoltre la ripresa era stata trainata da settori come i servizi privati e il turismo, molto diffusi nel Mezzogiorno e a forte presenza femminile, penalizzati dalla pandemia».

La beffa è che a fronte di un calo di oltre 800 mila occupati, il tasso di disoccupazione sia sceso.

«Quando all’Istat venne creato il Bes, venne istituito anche un indicatore che teneva conto del tasso di mancata partecipazione al lavoro, che includeva gli inattivi, un fenomeno prevalentemente italiano che nasce dal fatto che il lavoro da noi si cerca soprattutto attraverso i canali informali, e che per percepire l’indennità di disoccupazione non bisogna dimostrare di aver attivamente cercato un impiego. Ma non è mai stato preso in considerazione».