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Repubblica-La breve illusione dei docenti precari

La breve illusione dei docenti precari Ai miei tempi si chiamavano dignitosamente supplenti e si affacciavano un po' spauriti e intimiditi in classi improvvisamente indisciplinate per l'ass...

11/03/2002
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la Repubblica

La breve illusione dei docenti precari
Ai miei tempi si chiamavano dignitosamente supplenti e si affacciavano un po' spauriti e intimiditi in classi improvvisamente indisciplinate per l'assenza, in genere solo per malattia, del temuto e rispettato insegnante di ruolo... Oggi si chiamano precari e la parola lascia pensare a poveri diavoli, di non eccelsa qualifica, in bilico tra un lavoro saltuario e la disoccupazione. Se, però, si guarda un po' più da vicino al problema ci si accorge che il quadro è alquanto diverso. Spiegarlo davvero è quasi impossibile perché ogni qualvolta ci si inoltra in ogni specifica questione scolastica ci si imbatte in una tale congerie di leggi, normative, classificazioni, circolari interpretative da abbisognare, per districarsi, di una patente di guida da pilota supersonico. Rinuncio, perciò, a tradurre le lunghe e dettagliate spiegazioni ricevute e mi limiterò a uno schematico sunto.
In primo luogo i precari non sono precari per quanto attiene alla loro presenza nelle aule e alle loro funzioni ma solo per il trattamento normativo, lo stipendio, la stabilità. Si tratta, infatti, di circa 150.000 insegnanti a tempo pieno, assunti per l'intero anno scolastico, per cattedre lasciate vacanti dallo Stato che per dieci anni - dal 1990 al 2000 - non ha bandito i concorsi. Il vantaggio per l'Erario è evidente: i precari hanno lo stesso carico di lavoro e la stessa responsabilità educativa degli insegnanti di ruolo ma sono spostabili da una sede all'altra, non hanno gli stessi diritti contrattuali, possono essere licenziati nei mesi estivi e ripresi in autunno, non fanno carriera, non hanno scatti di anzianità, non percepiscono il Tfr, ai fini pensionistici valgono solo i primi quattro anni, mente i restanti sono ridotti ai 2/3.
Della stabilità del precariato - se mi è consentita l'assurdità della definizione - portano per intero la responsabilità i vecchi ministri DC e quelli del centrosinistra. I precari hanno accettato così a lungo la umiliante disparità con la speranza di accedere all'inserimento in ruolo, attraverso l'agognato concorso o l'abilitazione secondo graduatorie, giuridicamente prioritarie, compilate in base a titoli, requisiti vari e soprattutto anni di servizio prestato nella scuola pubblica. Va dato atto al ministro Luigi Berlinguer di aver tentato nel 1999 di risolvere il problema, sia indicendo finalmente un concorso sia istituendo una graduatoria permanente che garantiva un riconoscimento più certo per quanti avevano dedicato una buona parte della loro giovinezza alla scuola pubblica.
Ma la speranza è stata di breve durata. L'ondata razionalizzante aziendalistica, che già inquinava il riformismo del centro sinistra, ha ricevuto un impulso devastante con l'avvento di un ministro manager, Letizia Moratti, per di più estremamente sensibile alle influenze confessionali. Il combinato disposto che ne è uscito è una politica di tagli, di accorpamenti di classi, di orari prolungati ma con straordinari pagati a livello di baby sitter (17.000 lire nette l'ora). La bozza sugli organici del nuovo ministro prevede una riduzione di organico per il prossimo anno scolastico di 8.500 cattedre, quindi di altre 12.000 il successivo, per arrivare ad un totale di 35.000 nel terzo. A farne le spese saranno, in primo luogo i precari. Ma non è tutto. Mentre fino a ieri il servizio pubblico prestato costituiva un merito, rispondente ai più severi requisiti di entrata, oggi anche gli insegnanti dei cosiddetti istituti paritari (che prima avevano un punteggio giustamente dimezzato) sono stati immessi in graduatoria a punteggio pieno. I vecchi precari, ormai più che trentenni, vengono scavalcati dai nuovi venuti, di sicuro confessionalmente più affidabili anche se meno preparati. Il paradosso è che i danneggiati non possono neppure sperare d'essere assunti presso le private, rimaste a corto d'insegnanti per l'improvviso esodo verso l'amministrazione pubblica, sia perché non hanno spesso la richiesta vocazione religiosa ma soprattutto perché la Moratti ha emesso una circolare che autorizza preti, monache e privati laici ad aprire le porte agli insegnanti che preferiscono, anche se non possiedono i requisiti richiesti per le scuole pubbliche. In barba alla legge fatta approvare da Berlinguer che concedeva la "parità", a condizione che gli insegnanti rispondessero agli stessi canoni giuridici e culturali. Avviene il contrario: si porta a livello confessionale la scuola pubblica.


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