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Renzi e i silenzi sulla Buona scuola

L'ex premier, dopo l'affermazione alle primarie, ha rivendicato tutte le leggi fatte dal suo governo, eccetto una. I problemi della "107" hanno avuto un peso nella sconfitta al referendum, i docenti non l'hanno mai voluta. E ora il segretario del Pd, se vuole tornare a occuparsi di scuola, deve tacere sulla sua creatura prediletta

04/05/2017
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la Repubblica

Corrado Zunino

Nella notte in cui ha celebrato la forte affermazione alle primarie del Pd, Matteo Renzi ha ricordato, e rivendicato, le leggi del suo governo: il biotestamento, il "Dopo di noi", le unioni civili, anche il controverso Jobs Act. Ma della "Buona scuola" (ancor più controversa, si vede), nulla. Il segretario del Partito democratico fa sapere ai suoi che se tornerà a guidare l'esecutivo tornerà ad occuparsi personalmente di scuola, che l'istruzione è in cima alla scala delle priorità, dei bisogni del Paese, ma dopo la sconfitta sul referendum costituzionale, il 4 dicembre 2016, ha smesso di parlarne in pubblico.

Non la rivendica più. Nonostante i tre miliardi spesi nel progetto, nonostante le 108mila assunzioni di docenti prima precari, nonostante il forte prosciugamento delle Graduatorie a esaurimento (prosciugamento, non esaurimento). Le donne e gli uomini architetti della "Buona scuola" continuano a difenderla: Francesca Puglisi, responsabile Pd, ricorda i 670 milioni spesi nella nuova infanzia attraverso le deleghe, "La Buona scuola bis", il sottosegretario Gabriele Toccafondi è fiero a ogni uscita pubblica dell'allargarsi dell'alternanza scuola-lavoro.

Matteo Renzi, che sa bene che in quel mondo si è registrato il 300 per cento di scioperi in più e conosce una per una le bandiere issate su Twitter e Facebook "Non voterò mai più Pd", issate da professori di sinistra, ha iniziato a prendere le distanze dal figlio prediletto. Fino a nasconderlo.

Nel passaggio dal suo governo sconfitto a quello di Paolo Gentiloni, l'unico ministro non riconfermato e non recuperato altrove - la vittima sacrificale - è stata Stefania Giannini. Lei pure non ha più detto una parola: né sul licenziamento né sul fatto che la sua erede, Valeria Fedeli, abbia corretto a scadenze fisse i passaggi ancora correggibili della "107". Già, l'ex sindacalista Fedeli ha abbassato le pretese sugli spostamenti dei docenti (le "famose deportazioni", diventate decisamente più gradite dagli insegnanti meridionali costretti alla trasferta per lavorare) e ha aperto un biennio di recupero di molte categorie precarie che la Legge 107 aveva lasciato giù dalla cattedra: i tirocinati, i "36 mesi in ruolo".

La ministra Fedeli ha rimesso in discussione persino il concetto di abilitazione che con la prima "Buona scuola", quella del Renzi che la faceva votare a colpi di fiducia al Senato, era tabù invalicabile. Chi non era abilitato neppure si poteva avvicinare ai concorsi, ora l'abilitazione è diventata giusto un fiore all'occhiello per chi vuole prendere il ruolo, nulla di vincolante.

"Se abbiamo fatto arrabbiare così tanta gente, vuol dire che sulla Buona scuola qualcosa abbiamo sbagliato", diceva l'allora presidente del Consiglio nell'autunno che portava al referendum, poi ha smesso di dire qualsiasi cosa. Sarà che il secondo gruppo votante alle primarie del Pd - dopo quello dei pensionati - rientra nella categoria impiegati-insegnanti (e gli impiegati e gli insegnanti sono il secondo corpo elettorale nel Paese).

I fatti sono tre, e vanno messi in fila per capire il viaggio di quella che è stata una riforma centrale del governo e ha cambiato la cosa più preziosa di un Paese: la formazione dei suoi ragazzi. Il futuro, quindi. La prima questione: il pamphlet colorato che annunciava la Buona scuola, ricchi grafici, era stato accolto nel Paese, era la seconda metà del 2014, con un'attenzione positiva, pure con un accennato entusiasmo.

Metteva al centro di quel mondo, finalmente, lo studente, lasciava immaginare una didattica meno ingessata, prometteva assunzioni di massa (e ci sono state), premi al merito (in gran parte vanificati dalle scuole, che hanno spalmato soldi su tutti) e bonus culturali (instaurati, spesso neppure ritirati). Prometteva decisioni rapide. Già. Il passaggio dall'idea di una nuova scuola ai voti parlamentari sulla scuola è stato durissimo: per sei mesi, nel 2015, non si è parlato altro che delle proteste, dei sit-in, dei flash mob. Nei successivi sei mesi e per tutto il 2016 - questo è il secondo fatto - si è capito che la struttura ministeriale non era in grado di gestire quella massa di novità, tanto più contro una platea, i docenti, che per convinzione o paura era contro, a volte in maniera netta, più spesso in modo inerziale (boicottava dentro l'aula).

La preparazione dei giganteschi concorsi da parte del Miur della Giannini è stata lacunosa e cangiante, ma la cattiva applicazione della Buona scuola si è vista nel suo cavallo di battaglia tradito: le supplenze, diventate supplentite, una malattia. Il 2016 si è trasformato così in un anno da primati con studenti del liceo scientifico isterici al quinto cambio di insegnante di Fisica del quadrimestre. Niente cattedre certe, niente continuità didattica con un ricasco estremo sui ragazzi bisognosi di sostegno, fallimento nel fallimento. Dei famosi "presidi padroni", leit motiv dei molti cortei di quell'anno, si sono perse le tracce, tanto che oggi i dirigenti scolastici devono minacciare lo sciopero della fame per ottenere uno stipendio degno.

Il terzo e ultimo fatto è che Renzi - che ne sa di scuola, ha insegnanti ed ex insegnanti in famiglia - ha chiesto alla classe docente di spingere in avanti il loro quotidiano e un primo pezzo della categoria, tradizionalmente di sinistra, l'ha perso per avversione politica, la seconda parte perché le realizzazioni della Buona scuola non sono state all'altezza delle aspettative. E oggi Renzi, se vuole immaginare di riprendere in mano la scuola italiana, deve smettere di parlare di "Buona scuola".