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Ragionando sulla buona scuola

di Sergio Luzzatto

28/12/2015
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Il Sole 24 Ore

Se per un punto Martin perse la cappa, Matteo rischia di perderla per una lettera. Lo scamiciato presidente del Consiglio che con lavagna e gessetti ci ha illustrato, il 13 maggio scorso, tutti i meriti della «buona scuola», rischia di perdere la sua scommessa («non chiamiamola riforma, che non ne possiamo più!» ha raccomandato Renzi nel video) per avere confuso una d con una n: per avere trattato quale crisi dell’educazione quella che costituisce – in realtà – una crisi nell’educazione. Una crisi, cioè, che non riflette problemi squisitamente pedagogici, e meno ancora problemi meramente amministrativi. Una crisi che riflette, piuttosto, problemi culturali. Anzi, più fondamentalmente ancora, problemi epistemologici, ideologici, sociali.

È quanto ritengono gli autori di due volumetti usciti da poco, dove senza eccesso di tecnicismi (ed è già un merito) si affronta la questione educativa nell’Italia di oggi. Per Adolfo Scotto di Luzio come per Walter Tocci, la «buona scuola» di Matteo Renzi minaccia di rimanere un’operazione di superficie. Poco più che un intervento di restyling, a fronte di problemi che richiederebbero ben altro impegno organizzativo e finanziario. Ma soprattutto ben altro impegno – si avrebbe voglia di dire, con un sintagma oggi terribilmente fuori moda – etico-politico.

Pamphlettistico fin dal titolo, Senza educazione, il libro di Scotto di Luzio ha ambizioni contenute. Dedicato a I rischi della scuola 2.0 (così il sottotitolo), vuole rispondere alla domanda «Le nuove tecnologie fanno bene alla scuola?», e risponde che non fanno bene per nulla. Lo sforzo di attrezzare le scuole italiane con computer, tablet e lavagne digitali sottrae all’erario risorse economiche ed energie manageriali che andrebbero impiegate più utilmente – secondo Scotto di Luzio – nella formazione degli insegnanti e nel potenziamento della didattica. Senza dire che il ricorso alle nuove tecnologie rischia di accentuare le diseguaglianze sociali. Perché avvantaggia chi già possiede beni intellettuali, mentre penalizza chi non li possiede.

Il libro di Tocci riesce altrimenti ambizioso, fin da un titolo alla Mandeville: La scuola, le api e le formiche. Senza rinunciare al tono vibrante del pamphlet, il libro muove da un confronto consapevole e insistito con la questione di una riforma della scuola nell’Italia del XXI secolo. Ex vicesindaco di Roma, Tocci è attualmente senatore del Partito democratico e membro della commissione Istruzione. La «buona scuola», lui l’ha vista crescere nel grembo del governo Renzi prima che fosse pubblicamente partorita alla lavagnetta nel video di palazzo Chigi. E la «buona scuola» Tocci ha cercato – con il lavoro parlamentare – di rendere migliore.

D’altronde, Tocci riconosce al presidente del Consiglio il merito personale di un’attenzione per la scuola (e di una «competenza specifica», e di una «sincera passione») che non hanno uguali nella storia dell’Italia repubblicana. Così pure, Tocci riconosce alla legge sulla «buona scuola» il merito politico di avere voluto aumentare – rafforzando le autonomie scolastiche – la quantità e la qualità dell’offerta formativa. Ancora, Tocci riconosce alla «buona scuola» il merito di investire, almeno in prospettiva, sulla formazione degli insegnanti. E il merito di voler ribaltare il vecchio ordine delle cose tra il reclutamento di un insegnante e la sua formazione: facendo della vittoria di un posto a concorso la tappa che precede, anziché seguire, il relativo percorso di professionalizzazione.

Ma al di là di questi pregi, Tocci vede soprattutto difetti. A cominciare da un’«evidente aridità culturale» (incredibilmente prolissa, la legge sulla «buona scuola» rimastica in salsa british parole, formule, concetti, che zavorrano da trent’anni il burocratese ministeriale), per continuare con l’indulgenza verso tre peccati capitali che il senatore del Pd enumera e definisce così: gli «equivoci dell’autonomia», gli «inganni del mercato», i «malintesi del merito».

Ciascuno di tali peccati andrebbe discusso nel dettaglio, mentre qui bisogna contentarsi di riassumerli. Secondo Tocci, sono equivoci dell’autonomia – ad esempio – quelli per cui la nuova didattica sarà ristretta, nell’Italia della «buona scuola», agli insegnamenti opzionali gestiti dai singoli istituti: come se davvero questo potesse bastare per corrispondere alla «transizione cognitiva» in atto nel nostro tempo. Sono inganni del mercato quelli per cui si vuole affidare il futuro della scuola italiana (come già il presente dell’università) a un sistema di ripartizione dei fondi basato sul principio del bonus-malus: sistema che non può funzionare altrimenti che penalizzando il Sud a beneficio del Nord, dunque allargando il divario tra un’Italia concorrenziale e un’Italia non competitiva. Sono malintesi del merito quelli per cui religiosamente ci si inchina al dogma di una valutazione iperformalizzata e indiscriminata, che prescinde dalle coordinate del contesto territoriale e dalla saggezza delle valutazioni informali.

A tutto questo si aggiungono – nella critica di Tocci – i peccati di omissione della «buona scuola». Nel senso che la riforma (o comunque Renzi preferisca chiamarla) nulla contiene che aspiri a risolvere i limiti maggiori, strutturali, della scuola italiana. Quelli di cui Tocci stila impietosamente l’elenco, e che esamina poi uno per uno: «le diseguaglianze legate allo status familiare, al tipo di scuola e al contesto territoriale, soprattutto nel Mezzogiorno; l’inadeguatezza della didattica rispetto ai caratteri del mondo nuovo; la struttura dei cicli vecchia e ridondante, che costringe i giovani a rimanere a scuola un anno in più, perdendo in molti casi, lungo il percorso fino alle superiori, i buoni risultati raggiunti nelle elementari; le sfide e le opportunità dell’accoglienza dei migranti nella scuola multietnica; la regressione degli apprendimenti negli adulti che colloca l’Italia negli ultimi posti [Ocse]» (altro che «superpotenza culturale», come Renzi disse alla lavagnetta...).


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