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Quel che ancora manca alla ricerca

Elena Cattaneo

30/03/2018
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la Repubblica

Si è conclusa ieri la prima fase dei bandi Prin ( Progetti di rilevante interesse nazionale) 2017, per i quali il Miur ha stanziato quasi 400 milioni di euro, la somma più alta di sempre per la ricerca di base competitiva su tutte le discipline. Oltre 4.500 i progetti presentati, di cui 422 per la linea specifica “ Giovani” e 653 per la linea “ Sud”. Molti osservatori e la stessa ministra Fedeli hanno espresso il timore che quei 400 milioni restino un’eccezione, se il prossimo governo e quelli a venire non riconosceranno negli investimenti in ricerca di base il luogo privilegiato per costruire il futuro del Paese, oltre che il mezzo per acquisire i dati preliminari necessari ai nostri studiosi per vincere più fondi nelle competizioni europee.

Il tempo trascorso dalla decisione di stanziare questa somma all’uscita dei bandi Prin è stato troppo breve per rivoluzionare le procedure. Ci sono stati, però, molti progressi rispetto al passato, grazie anche all’apertura del Miur a osservazioni e suggerimenti provenienti dal mondo della ricerca.

È importante riconoscere quanto fatto affinché le buone pratiche siano implementate da tutti gli enti coinvolti. In particolare: 1) l’individuazione di 25 commissioni di valutazione ( come i panel Erc), ciascuna composta da almeno cinque membri — auspicabilmente non residenti in Italia, per ridurre rischi di contiguità — dedicate alle diverse discipline, che supera il limite di poche commissioni tematiche con migliaia di domande su campi diversi; 2) l’ampliamento del database dei valutatori, che mira a raggiungere migliaia di studiosi residenti all’estero cercando di porre fine al rischio di antichi scambi di “cortesie nazionali” e conflitti d’interesse. Recentemente il Miur ha invitato atenei e centri di ricerca a suggerire valutatori: peccato aver limitato tale richiesta a 10 nomi per disciplina per ciascun ente, quando invece sarebbe stata l’occasione per il rilancio di un vero database mondiale in ogni campo; 3) la definizione di linee guida per i valutatori, che aiuteranno a “pesare” in fase di preselezione i curriculum degli studiosi partecipanti non solo in base alla produttività, ma anche all’età, evitando il rischio di escludere i progetti guidati da studiosi sotto i quarant’anni; 4) l’opportunità di formulare progetti di ricerca con un budget fino a 1,2 milioni di euro, similmente ai bandi Erc, e l’accesso al bando Prin 2017 anche per i vincitori di quello del 2015, che, con soli 92 milioni a disposizione, comportò forsennati tagli (fino all’80%) per quasi tutti i progetti finanziati; 5) l’obbligo di presentare i progetti in inglese, lingua- veicolo di confronto e valutazione per i ricercatori di tutto il mondo, anche umanisti. Come ha osservato la ministra Fedeli, «nella seconda fase della valutazione del bando Prin avremo bisogno di migliaia di valutatori attinti anche da banche-dati estere (...) la redazione dei progetti non può fare a meno del vincolo comunicativo dell’inglese, lasciando l’opzione dell’italiano » . Sarebbe preferibile, aggiungo, che non un solo progetto Prin venisse valutato in Italia. Così fanno le agenzie per la ricerca negli altri Paesi.

La sfida, ora, è usare questa occasione per strutturare procedure standard di assegnazione di risorse per tutti i prossimi bandi, anche integrando il lavoro di più ministeri.

È paradossale che in Italia non esista un registro unico dei progetti di ricerca finanziati con fondi pubblici, col rischio che lo stesso progetto possa accedere a più fonti di finanziamento e che quelli non originali e vecchi di anni tolgano risorse ad altri. L’auspicio è che, partendo da aree specifiche, ad esempio la biomedicina, i ministeri e le istituzioni finanziatrici lavorino in sinergia per creare un database unico, nazionale, di tutti i progetti di ricerca ( e dei valutatori) e per potenziare le valutazioni ex post dei progetti finanziati. Oggi non esiste un modo univoco per valutare l’esito dei progetti conclusi.

Quanto fatto fin qui dal Miur è importante. Ma l’assenza di un’Agenzia per la ricerca il cui primo compito sarebbe lavorare sulle procedure per applicarle e aggiornarle, verificandone in ogni momento appropriatezza e rendimento, continua a essere l’anomalia del nostro Paese. Siamo ormai pressoché gli unici in Europa a non averla.


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