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Quei legami nati in classe

Michela Murgia

14/10/2020
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La Stampa

L'unica notizia vera del nuovo decreto del presidente del Consiglio è che le scuole staranno ancora aperte. La soppressione della categoria spirituale del compagno di banco sembra scongiurata solo grazie alla determinazione della ministra Lucia Azzolina, che è stata categorica: di tornare alla didattica a distanza non se ne parla proprio. Il presidente Conte sembra per ora darle ragione, ma i dati crescenti dei contagi e le pressioni delle regioni che vorrebbero ridurre del 50% il numero dei passeggeri sui mezzi pubblici fanno temere che la determinazione della ministra possa alla lunga non bastare a evitare a migliaia di liceali l'incubo del ritorno alla didattica a distanza. Perché di incubo si tratta, e forse ai presidenti di regione bisognerebbe ricordarlo.

La scuola ha due scopi in un sistema democratico: formare competenze e educare alle relazioni sociali, nella certezza che l'uno non si realizzi del tutto mai senza l'altro. La didattica a distanza invece spezza proprio quello che è nato per funzionare congiunto e rende di fatto inefficaci entrambe le funzioni. Spariscono i compagni di classe, ridotti ad avatar bidimensionali. Sparisce l'insegnante, che diventa un'entità video ignorabile a piacimento. Spariscono soprattutto le dinamiche del gruppo-classe, l'unico spazio extrafamiliare dove si potevano sperimentare i propri limiti e le proprie potenzialità all'interno di un sistema di regole condivise, che poi è la palestra di ogni democrazia. È un fatto: se non si va a scuola non si impara a stare insieme. Per questo è inspiegabile che ci sia chi fa pressione per condannare decine di migliaia di ragazzi e ragazze a perdere un anno di alfabetizzazione sociale senza mai più poterlo recuperare. In uno stato di lungimiranza politica le scuole dovrebbero essere considerate prioritarie al punto da chiuderle solo dopo che siamo stati costretti a dire basta a tutto il resto. Il problema del contagio sono gli autobus? Diamo questo dato per buono, ma consideriamo che sugli autobus ci sono tre tipi di persone: quelli che vanno al lavoro, quelli che vanno a studiare e quelli che vanno dove gli va. Un politico che ha il futuro in testa agisce anzitutto sulle due categorie adulte. In prima istanza chiede alle imprese di mettere più persone possibile in smart working, rivedendo i processi produttivi nell'ottica del lavoro da remoto. Poi domanda ai cittadini e alle cittadine di uscire solo se realmente necessario, anche a costo di definire gli spazi di questa necessità.

Infine chiede a tutti e tutte uno sforzo di responsabilità e qualche rinuncia, affinché le nuove generazioni non siano costrette a fermare il processo delicatissimo della loro crescita, che è quella del Paese stesso. Banalmente – se proprio al politico non venisse in mente altro – si organizza e si pretende l'aumento del numero degli autobus e dei treni, una pensata sulla cui realizzabilità forse gli ultimi 4 mesi potevano fare la differenza, se solo fosse stato previsto l'insospettabile evento del riavvio delle scuole in autunno. Invece pare che i politici pensino in direzione opposta, convinti che la vita di relazione scolastica di un'intera generazione di ragazzi e ragazze delle scuole superiori possa essere considerata sacrificabile per continuare a far spostare in sicurezza chiunque altro. Il pensiero in fondo è che con la cultura non si mangi e studiare non faccia parte dei processi produttivi. Dopo trent'anni che questo pregiudizio si fa scelta politica, nessuno stupore che nell'autobus dello sviluppo europeo l'Italia occupi il posto vicino alle porte in fondo, quelle da cui, nel caso, si scende prima. —


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