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Produzione di precarietà a mezzo precarietà.

di Francesco Sinopoli

09/04/2014
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ROARS

Prime considerazioni (molto) critiche sulla proposta di legge Capua.

E’ stata depositata  il 16 Gennaio  una proposta di legge denominata Disposizioni per la valorizzazione della ricerca indipendente  a firma del deputato Capua. Una testo che ad avviso di chi scrive suscita più di un interrogativo.

Nella relazione di accompagnamento si tratteggia lo sfondo in cui si colloca l’iniziativa parlamentare e le ragioni che la animano. Prendendo atto della “difficoltà nella programmazione delle risorse umane nel sistema pubblico, causata da una combinazione di fattori quali la riduzione del finanziamento dello stato, i limiti legislativi al reclutamento e l’introduzione continua di regole sempre più rigide e complesse” mirerebbe a rimuovere presunte rigidità attuali rispetto all’impiego con contratti a termine su fondi di progetto. Del resto, continua la relazione di accompagnamento ,“in Italia una programmazione di sviluppo delle risorse umane nel contesto universitario e degli enti di ricerca è un obiettivo di medio lungo termine “ quindi,  in sostanza, oggi impossibile. Niente di meglio perciò “per salvaguardare il capitale umano esistente  e spingerlo verso una sana competizione che introdurre nuovi elementi di flessibilità”. Infatti a fronte della crisi drammatica delle nostre università e degli enti di ricerca esisterebbero straordinari ricercatori che “appoggiati” a queste strutture competono nel libero mercato della ricerca captando fondi europei nazionali e regionali. Questi ricercatori non sarebbero precari ma, appunto, “indipendenti”.  Quindi devono essere riconosciuti come tali.

La proposta, in sostanza, introduce una nuova figura contrattuale a tempo determinato, oltre quelle già esistenti (assegni di ricerca e contratti di lavoro subordinato a termine) che dovrebbe servire per facilitare il reclutamento sui progetti di ricerca oltre a introdurre la possibilità di prorogare gli assegni di ricerca superando il limite attualmente previsto dalla normativa.  L’enfasi posta nel nome poco corrisponde al contenuto che sembra, piuttosto, collocarsi nella sciagurata tradizione itaolica di interventi sul mercato del lavoro basati sulla moltiplicazione le fattispecie contrattuali senza aumentare le garanzie. In questo caso la scelta colpisce particolarmente trattandosi di un contesto, quello della ricerca, dove negli ultimi anni – in particolare di fronte al fallimento della legge 240/10 – sono state avanzate varie ipotesi di riforma tutte tendenti a definire un unico percorso di reclutamento con contratti a tempo determinato superando quanto meno collaborazioni, prestazioni d’opera e assegni di ricerca. In questo caso si va nella direzione opposto lasciando alle singole università e ai singoli enti di ricerca la definizione le caratteristiche dei contratti e quindi anche i diritti della nuova figura. Va oltre la già agghiacciante deriva del job act in  salsa renziana  già molto peggio delle previsioni   che “liberalizza” totalmente i  contratti a termine ma non sfonda i vincoli nell’utilizzo degli abusi peggiori cioè i finti contratti di lavoro parasubordinato.

La proposta Capua invece apre le porte ad un nuovo e più ampio supermarket della precarietà affidato alla lungimiranza degli ordinamenti delle singole istituzioni scientifiche favorendo soprattutto l’utilizzo di queste tipologie contrattuali senza diritti e senza tutele. Ci mancava un po’ di flessibilità… Prima di entrare nel merito dell’articolato alcune considerazioni sulla relazione di accompagnamento appaiono necessarie. E’ fuori discussione che nel nostro paese esistano ricercatori straordinari in grado da attrarre cospicui finanziamenti su progetti. Tuttavia questa condizione non è sempre l’ideale per svolgere una attività di ricerca come molti sanno perfettamente. Infatti spesso compromette percorsi scientifici e curricula almeno quanto sopperisce, per citare sempre la relazione di accompagnamento, “ alla contrazione del contributo statale per la ricerca”.

Che poi i ricercatori a tempo determinato su progetti di ricerca, come del resto tanti altri lavoratori “a progetto” nel senso etimologico del termine, non siano necessariamente precari questo dipende da molti fattori primo fra tutti l’esistenza di un welfare e di opportunità di carriera e di mobilità  nel proprio paese di origine che fanno passare, per alcuni anni della propria vita o per sempre (meno frequente questa condizione), in secondo piano la necessità di una posizione stabile. Certo non si può affermare a priori che non siano precari, in particolare nel nostro paese dove le citate condizioni mancano entrambe. Altrettanto discutibile, ad avviso di chi scrive, la descrizione dei gruppi di ricerca “indipendenti” perché finanziati solo parzialmente dall’ente in cui operano. Questa idea di gruppi di ricercatori che si appoggiano di volta in volta a una struttura o un’altra rappresenta una realtà falsa perché costruisce una idea di mercato libero della ricerca dove le organizzazioni e le loro missioni istituzionali non contano o sono appunto secondarie come il finanziamento che erogano alla ricerca stessa.

Analizziamo ora la proposta vera e propria.

Come recita l‘articolo 1 mira a “favorire la crescita e la competitività dei ricercatori italiani nello spazio europeo della ricerca,  promuovere l’eccellenza scientifica e le idee progettuali con l’introduzione di condizioni di flessibilità per lo svolgimento di attività di ricerca presso le istituzioni del sistema italiano della ricerca”. L’ambito di applicazione dell’intero articolato ci sembra di capire dovrebbero essere tutte le università e tutti gli enti pubblici di ricerca incluso l’Asi ma la tecnica normativa per definirne il perimetro è decisamente discutibile in quanto lascia i contorni incerti potendo ricomprendere anche i settori privati cui però le fattispecie contrattuali citate dalla normativa non trovano applicazione.  Tralasciamo volutamente ogni commento  sulla  improbabile relazione che si costruisce tra obiettivi e strumenti utilizzati per raggiungerli ma è coerente con la relazione di accompagnamento del resto.

L’articolo 2 definisce la figura del “ricercatore indipendente”  come colui che “ essendo in possesso del titolo di dottore di ricerca o avendo comprovata esperienza di ricerca tale da permettergli di essere vincitore di bando competitivo italiano o internazionale per attività di ricerca e sviluppo tecnologico e non avendo rapporti di lavoro dipendente con enti pubblici o privati, acquisisce su base concorrenziale finanziamenti nazionali, europei e internazionali”. In questo caso l’ambito di applicazione è invece definito trattandosi delle università gli enti di ricerca e gli istituti di ricovero e cura che “tramite i loro ordinamenti disciplinano la figura del ricercatore indipendente”. Il contratto da  “ricercatore indipendente” può essere reiterato con la stessa persona e comunque deve essere della durata del progetto.

Qual’è il fine di questa norma? Facilitare le opportunità di impiego sui progetti di ricerca prima di tutto per coloro che meritoriamente li vincono? Superare eventuali ostacoli di carattere normativo o contabile alla proroga dei contratti a tempo determinato sui progetti?  E’ davvero così?

Vediamo.

Innanzitutto è bene ricordare che il contratto a tempo determinato è diversamente disciplinato negli Enti di ricerca  e nelle università ferma restando la normativa generale del D.Lgs 368/2001. Nei primi in virtù dell’articolo 5 del CCNL può arrivare alla durata di 5 anni o comunque essere coerente con la durata del progetto di ricerca inoltre può essere convertito in contratto a tempo indeterminato previa valutazione dell’attività svolta se è stato attivato sulla base di una procedura concorsuale pubblica. Inoltre in una situazioni straordinaria come quella attuale, in cui le assunzioni sono praticamente bloccate da anni, in virtù dell’articolo 5 comma 4 bis del Dlgs 368 2001 sono stati siglati numerosi accordi collettivi finalizzati a superare anche questi limiti evitando quindi sia licenziamenti che la necessità di ripetere prove selettive alla scadenza dei contratti per lavorare sullo  stesso progetto.

Nelle università la disciplina è affidata oggi all’articolo 24 della legge 240/10  in cui si prevedono due tipologie di contratto a termine con  e senza tenure track mentre si rinvia per i carichi didattici ai regolamenti di ateneo. In sostanza, combinando le diverse fattispecie di lavoro subordinato a termine, a cui si aggiunge l’assegno di ricerca, si può peregrinare tra contratti a termine prima di vedere l’opportunità di una posizione stabile o trovarsi nella situazione di non poter avere un contratto. A condizione che naturalmente vi siano le risorse e che non si superino i tetti di spesa su contratti a termine e atipici previsti sui fondi ordinari. Limiti che però non operano sui fondi esterni in virtù  dell’art. 1 comma 188 legge 266/ 05. “188. Per gli enti di ricerca, l’Istituto superiore di sanità (ISS), l’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (ISPESL), l’Agenzia per i servizi sanitari regionali (ASSR), l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA), l’Agenzia spaziale italiana (ASI), l’Ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente (ENEA), il Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione (CNIPA), nonché per le università e le scuole superiori ad ordinamento speciale e per gli istituti zooprofilattici sperimentali, sono fatte comunque salve le assunzioni a tempo determinato e la stipula di contratti di collaborazione coordinata e continuativa per l’attuazione di progetti di ricerca e di innovazione tecnologica ovvero di progetti finalizzati al miglioramento di servizi anche didattici per gli studenti, i cui oneri non risultino a carico dei bilanci di funzionamento degli enti o del Fondo di finanziamento degli enti o del Fondo di finanziamento ordinario delle università.”

Quindi in virtù della normativa attuale non ravvisiamo vincoli particolari per l’utilizzo di contratti a termine su progetti. Anzi. Se si intendeva poi affrontare il problema delle proroghe comunque si sarebbe dovuto partire da queste norme magari uniformando la disciplina. Evidentemente non è così. Si parte da un assunto diverso: le figure attuali non bastano e sono troppo poco flessibili. Ne serve una nuova !

Siamo ancora una volta nel solco tutto italiano della moltiplicazione di tipologie contrattuali precarie. L’incerta tipologia “ricercatore indipendentesi aggiungerebbe, infatti,  al contratto  a tempo determinato sovrapponendosi ad esso solo se i singoli ordinamenti delle istituzioni scientifiche lo scegliessero come modello di riferimento. Si scrive infatti nella proposta Capua che “di norma” i contratti da ricercatore indipendente sono stipulati alle medesime condizioni di un contratto di lavoro subordinato da ricercatore. Ma solo “di norma” (articolo 2 lettera b). Perché evidentemente si potrà anche dare il caso che il trattamento sia inferiore oppure che il “ricercatore indipendente” operi con un contratto non di lavoro subordinato essendo quindi fortemente penalizzato in termini di tutele e diritti. Salvo adeguarsi agli standard internazionali qualora il bando su cui grava la retribuzione del ricercatore fissi dei parametri.

Nella proposta di legge a scanso di equivoci si prevede inoltre che sui progetti di ricerca si possano attivare contratti di prestazione d’opera che da anni nella pubblica amministrazione si cerca di limitare trattandosi di vero e proprio dumping salariale essendo prevalentemente utilizzati in sostituzione del lavoro subordinato e quindi sostanzialmente un abuso.

Il problema è esattamente l’opposto. Già oggi le tipologie contrattuali sono troppe in particolare chi ha l’assegno di ricerca  fa le stesse cose di chi ha un contratto a tempo determinato solo che è pagato meno e fortemente penalizzato sotto il profilo dei diritti sociali. Piuttosto che introdurre una ulteriore fattispecie esente Irpef (articolo 5 della proposta Capua), come gli assegni, ma ugualmente incerta sotto il profilo delle tutele molto più sensato sarebbe abolire l’assegno di ricerca e prevedere una sola figura contrattuale di lavoro subordinato a tempo determinato magari conservando l’esenzione come da più parti si propone.

Senza considerare poi una questione più generale che riguarda il contrasto tra la normativa italiana sui contratti a termine e la direttiva europea da cui la nostra disciplina generale trae origine. La regolazione della materia dei contratti a tempo determinato basa la sua impalcatura su un accordo tra parti sociali (sindacati e datori di lavoro) siglato in sede europea, successivamente recepito in una direttiva la 99/70 Ce e poi nelle diverse normative nazionali. L’Italia ha adeguato la sua legislazione alla direttiva con il D.Lgs 368/2001 rimaneggiato successivamente una infinità di volte da ultimo con il decreto lavoro ma basato, come si diceva, su un negoziato tra sindacati e datori di lavoro. Non è un caso che il decreto legislativo 368/2001 per superare i limiti massimi di durata rinvii ad una procedura che prevede l’assistenza delle parti sociali o un accordo collettivo. Comunque per quello che rileva a fini della nostra analisi la normativa europea prevede come deterrente all’abuso di contratti a termine l’obbligo di assunzione a tempo indeterminato se violano i limiti previsti dalla stessa nell’utilizzo oltre a sanzioni di natura economica diversamente calcolate negli stati membri.  Il “deterrente” della stabilizzazione nel pubblico impiego non opera sulla base di una normativa specifica di settore ma vacillante perché in odore di contrasto con la disciplina europea.

Recentemente la corte di giustizia  si è pronunciata evidenziando ancora più che in passato questo contrasto mentre si attende entro l’estate la pronuncia della commissione europea sullo stesso argomento. Quindi il legislatore intervenendo sulla materia dovrebbe porsi il problema del rapporto tra l’attuale normativa e gli sviluppi del contenzioso a livello comunitario cosa che la proposta Capua ignora palesemente. O forse, volendo essere malevoli, non la ignora affatto ma pensa di risolvere il problema favorendo la possibilità di utilizzare contratti di lavoro autonomo (che saranno nella stragrande maggioranza dei casi finti) in sostituzione dei contratti di lavoro subordinato da ricercatore.

In sintesi “la valorizzazione della ricerca indipendente” rischia, almeno nella attuale formulazione, di essere più orientata a favorire un utilizzo ancora più sfrenato di contratti precari che finalizzata a riconoscere un qualche status ai ricercatori free lance. Infatti l’aspetto positivo, ad avviso di chi scrive  almeno, si esaurisce nel riconoscimento del ruolo di coordinamento dei progetti (articolo 2) e nel limite di ore da dedicare all’insegnamento (art. 2 lettera g) ma non necessitava certo la creazione di una nuova figura potendo anzi dovendo essere  riconosciuto a  tutti coloro che hanno un contratto a termine.  E’ davvero preoccupante che dal partito del Ministro dell’Istruzione possa arrivare una proposta simile in cui ci si limita a prendere atto del collasso delle nostre università e dei nostri enti introducendo l’ennesima fattispecie contrattuale atipica addirittura modulabile sede per sede come soluzione ai problemi ormai endemici del reclutamento. Preoccupante ma purtroppo non sorprendente.


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