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Pochi laureati ma in Italia cresce il numero chiuso

I n Italia abbiamo il più basso numero di laureati d’Europa. Per recuperare terreno dovremmo rincorrere gli studenti e incentivarli a prendersi un titolo di studio, invece mettiamo ostacoli.

23/01/2019
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Corriere della sera

Milena Gabanelli e Orsola Riva

I n Italia abbiamo il più basso numero di laureati d’Europa. Per recuperare terreno dovremmo rincorrere gli studenti e incentivarli a prendersi un titolo di studio, invece mettiamo ostacoli. Partiamo dal più vistoso: il numero chiuso nei corsi di laurea. A cosa serve? La risposta è scritta nella legge 264 del 1999 (governo D’Alema): troppi corsi diventati parcheggi per fuoricorso o fabbriche di disoccupati, troppe aule sovraffollate. Da quel momento si stabilirono due tipi di sbarramento: a livello nazionale per medici e dentisti, infermieri e fisioterapisti, veterinari, architetti e maestre. A livello locale invece si lasciava ai singoli atenei la facoltà di disporre del numero chiuso per i corsi che prevedevano l’uso di laboratori o l’obbligo di tirocini. Un modo per garantire a ogni studente una formazione di alto livello e sfornare «dottori» in numero corrispondente al fabbisogno nazionale e alle richieste del mercato.

Nelle facoltà di Medicina

Com’è andata a finire vent’anni dopo? Che a Medicina ogni anno un esercito di aspiranti camici bianchi (quest’anno erano 67 mila per 10 mila posti) va a sbattere contro il test: 100 minuti per rispondere a 60 domande che con le cose studiate a scuolac’entrano poco. I più si preparano spaccandosi la testa sui quiz degli anni precedenti pagando migliaia di euro «allenatori» privati. Chi passa, una volta portata a casa la laurea, deve affrontare un altro collo di bottiglia, quello delle scuole di specializzazione. Qui i posti sono legati al numero di borse di studio disponibili: sistematicamente meno di quelli che servirebbero. Una strozzatura che rischia nei prossimi dieci anni di lasciare milioni di famiglie senza medico di base, mentre ne mancano all’appello ogni anno 700, fra chirurghi pediatri anestesisti ginecologi e medici di pronto soccorso.

Il boom del numero chiuso

Quanto agli altri corsi, quelli su cui spettava ai singoli atenei decidere, c’è stato un vero e proprio boom del numero chiuso. Si è iniziato con biologia e farmacia, diventate ripiego temporaneo per aspiranti medici eliminati al primo turno in attesa di riprovarci l’anno dopo. Poi un po’ ovunque. Quest’anno su 4.560 corsi di laurea soltanto 2.827 sono ad accesso libero; 732 sono quelli a numero chiuso programmati dal Miur, a cui si aggiungono 1.001 corsi decisi dagli atenei.

Le lauree più aperte restano quelle umanistiche. Test obbligatorio quasi ovunque per diventare psicologi. Giurisprudenza invece, nonostante la cronica inflazione di avvocati, resta per lo più aperta, ma le iscrizioni sono spontaneamente in flessione. Mentre, nonostante il test imposto dai super Politecnici di Milano, Torino e Bari, gli aspiranti ingegneri cambiano città e gli immatricolati sono in costante aumento.

Persi 10.000 docenti in 10 anni

In sostanza quella che doveva essere una opzione circoscritta ad alcune facoltà, è diventata nel tempo una scelta obbligata. Gli atenei sono costretti a ridurre il numero di studenti perché non hanno abbastanza docenti: dal 2008 a oggi sono scesi da 63.228 a 53.801. Il continuo taglio dei finanziamenti all’università non consente di rimpiazzare i professori che vanno in pensione.

A questo si aggiunge la nuova normativa sull’accreditamento dei corsi di studio che vincola le università a garantire un determinato rapporto docenti-studenti. Paradossalmente il boom dei corsi a numero chiuso ha coinciso (colpa della crisi) con il crollo degli immatricolati: nel 2007-2008 erano 300.000, scesi a meno di 270 mila nel 2013-14.

Negli ultimi tre anni sono tornati a crescere fino a 290 mila, ma il miglioramento è imputabile più all’aumento del numero di diplomati che al tasso di passaggio dalla scuola all’università, bassissimo nel confronto col resto d’Europa (46 per cento contro 63 per cento). Il saldo finale piazza l’Italia in fondo alla classifica europea per numero di giovani laureati: il 26,9 per cento dei 30-34enni, contro una media che sfiora il 40 per cento. Dietro di noi solo la Romania.

Rette alte, poche borse di studio

Intendiamoci: non è che l’Italia abbia pochi laureati per colpa del numero chiuso. Le cause sono ben altre, a partire dal caro rette (1.350 euro per la triennale), dalla scarsità di fondi per il diritto allo studio (ne usufruisce poco più dell’11% degli studenti), e dalla quasi totale assenza di corsi di laurea professionalizzanti che sarebbero più a portata dei diplomati tecnici, e più appetibili per le piccole e medie imprese a conduzione familiare.

Si aggiunge lo scarso livello di preparazione dei diplomati italiani che — dati Ocse-Pisa alla mano — al Nord se la battono con i genietti finlandesi, mentre al Sud sprofondano al livello degli ultimi della classe kazaki. A riprova di un sistema scolastico che invece di funzionare da ascensore sociale non fa che confermare le disparità di partenza.

L’Università più povera d’Europa

Per risalire la china non basta dire «aboliamo il numero chiuso». In Parlamento solo nell’ultimo anno sono state presentate sette diverse proposte di revisione della legge del 1999. Certo, il sistema dei test a crocette meriterebbe un profondo ripensamento per essere certi di selezionare davvero i più capaci e meritevoli. Ma se si vuole cambiare rotta bisogna cominciare ad aprire il portafogli.

L’università italiana è fra le più povere d’Europa: in rapporto al Pil spendiamo lo 0,9 per cento contro l’1,2 per cento della Germania, l’1,3 della Spagna, l’1,5 della Francia, per non parlare degli inglesi che sfiorano il 2 per cento. Solo se ripartono gli investimenti si potrà pensare di eliminare gradualmente il numero chiuso per sostituirlo, magari, con un sistema di selezione in itinere.

La legge di Bilancio 2019

Invece, nell’ultima legge di Bilancio, con una mano sono stati dati più soldi (40 milioni all’università e 10 milioni alle borse di studio), ma con l’altra sono stati congelati almeno fino a luglio per via degli accantonamenti imposti ai vari ministeri. Ed è vero che in chiusura d’anno sono state finalmente sbloccate 2.000 assunzioni per coprire i pensionamenti del 2017, ma i 440 docenti in più del normale turnover concessi alle università virtuose non solo tagliano fuori la maggior parte degli atenei del Sud con i conti scassati dalla fuga di iscritti e dall’impossibilità di far leva sulle rette, ma cominceranno ad arrivare non prima di dicembre per via del blocco delle assunzioni nella Pubblica amministrazione. E così un altro anno è andato.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

di Milena Gabanelli e Orsola Riva

È un paradosso tutto italiano: siamo penultimi in Europa per numero di giovani laureati, ma le università continuano con il numero chiuso. Barriere all’ingresso invece di incentivare i giovani a intraprendere una strada che possa portarli a diventare dottori. Un percorso iniziato vent’anni fa (governo D’Alema) e pensato per alcune facoltà, è diventato una scelta obbligata: nel frattempo sono stati tagliati fondi e docenti.

I n Italia abbiamo il più basso numero di laureati d’Europa. Per recuperare terreno dovremmo rincorrere gli studenti e incentivarli a prendersi un titolo di studio, invece mettiamo ostacoli. Partiamo dal più vistoso: il numero chiuso nei corsi di laurea. A cosa serve? La risposta è scritta nella legge 264 del 1999 (governo D’Alema): troppi corsi diventati parcheggi per fuoricorso o fabbriche di disoccupati, troppe aule sovraffollate. Da quel momento si stabilirono due tipi di sbarramento: a livello nazionale per medici e dentisti, infermieri e fisioterapisti, veterinari, architetti e maestre. A livello locale invece si lasciava ai singoli atenei la facoltà di disporre del numero chiuso per i corsi che prevedevano l’uso di laboratori o l’obbligo di tirocini. Un modo per garantire a ogni studente una formazione di alto livello e sfornare «dottori» in numero corrispondente al fabbisogno nazionale e alle richieste del mercato.

Nelle facoltà di Medicina

Com’è andata a finire vent’anni dopo? Che a Medicina ogni anno un esercito di aspiranti camici bianchi (quest’anno erano 67 mila per 10 mila posti) va a sbattere contro il test: 100 minuti per rispondere a 60 domande che con le cose studiate a scuola c’entrano poco. I più si preparano spaccandosi la testa sui quiz degli anni precedenti pagando migliaia di euro «allenatori» privati. Chi passa, una volta portata a casa la laurea, deve affrontare un altro collo di bottiglia, quello delle scuole di specializzazione. Qui i posti sono legati al numero di borse di studio disponibili: sistematicamente meno di quelli che servirebbero. Una strozzatura che rischia nei prossimi dieci anni di lasciare milioni di famiglie senza medico di base, mentre ne mancano all’appello ogni anno 700, fra chirurghi pediatri anestesisti ginecologi e medici di pronto soccorso.

Il boom del numero chiuso

Quanto agli altri corsi, quelli su cui spettava ai singoli atenei decidere, c’è stato un vero e proprio boom del numero chiuso. Si è iniziato con biologia e farmacia, diventate ripiego temporaneo per aspiranti medici eliminati al primo turno in attesa di riprovarci l’anno dopo. Poi un po’ ovunque. Quest’anno su 4.560 corsi di laurea soltanto 2.827 sono ad accesso libero; 732 sono quelli a numero chiuso programmati dal Miur, a cui si aggiungono 1.001 corsi decisi dagli atenei.

Le lauree più aperte restano quelle umanistiche. Test obbligatorio quasi ovunque per diventare psicologi. Giurisprudenza invece, nonostante la cronica inflazione di avvocati, resta per lo più aperta, ma le iscrizioni sono spontaneamente in flessione. Mentre, nonostante il test imposto dai super Politecnici di Milano, Torino e Bari, gli aspiranti ingegneri cambiano città e gli immatricolati sono in costante aumento.

Persi 10.000 docenti in 10 anni

In sostanza quella che doveva essere una opzione circoscritta ad alcune facoltà, è diventata nel tempo una scelta obbligata. Gli atenei sono costretti a ridurre il numero di studenti perché non hanno abbastanza docenti: dal 2008 a oggi sono scesi da 63.228 a 53.801. Il continuo taglio dei finanziamenti all’università non consente di rimpiazzare i professori che vanno in pensione.

A questo si aggiunge la nuova normativa sull’accreditamento dei corsi di studio che vincola le università a garantire un determinato rapporto docenti-studenti. Paradossalmente il boom dei corsi a numero chiuso ha coinciso (colpa della crisi) con il crollo degli immatricolati: nel 2007-2008 erano 300.000, scesi a meno di 270 mila nel 2013-14.

Negli ultimi tre anni sono tornati a crescere fino a 290 mila, ma il miglioramento è imputabile più all’aumento del numero di diplomati che al tasso di passaggio dalla scuola all’università, bassissimo nel confronto col resto d’Europa (46 per cento contro 63 per cento). Il saldo finale piazza l’Italia in fondo alla classifica europea per numero di giovani laureati: il 26,9 per cento dei 30-34enni, contro una media che sfiora il 40 per cento. Dietro di noi solo la Romania.

Rette alte, poche borse di studio

Intendiamoci: non è che l’Italia abbia pochi laureati per colpa del numero chiuso. Le cause sono ben altre, a partire dal caro rette (1.350 euro per la triennale), dalla scarsità di fondi per il diritto allo studio (ne usufruisce poco più dell’11% degli studenti), e dalla quasi totale assenza di corsi di laurea professionalizzanti che sarebbero più a portata dei diplomati tecnici, e più appetibili per le piccole e medie imprese a conduzione familiare.

Si aggiunge lo scarso livello di preparazione dei diplomati italiani che — dati Ocse-Pisa alla mano — al Nord se la battono con i genietti finlandesi, mentre al Sud sprofondano al livello degli ultimi della classe kazaki. A riprova di un sistema scolastico che invece di funzionare da ascensore sociale non fa che confermare le disparità di partenza.

L’Università più povera d’Europa

Per risalire la china non basta dire «aboliamo il numero chiuso». In Parlamento solo nell’ultimo anno sono state presentate sette diverse proposte di revisione della legge del 1999. Certo, il sistema dei test a crocette meriterebbe un profondo ripensamento per essere certi di selezionare davvero i più capaci e meritevoli. Ma se si vuole cambiare rotta bisogna cominciare ad aprire il portafogli.

L’università italiana è fra le più povere d’Europa: in rapporto al Pil spendiamo lo 0,9 per cento contro l’1,2 per cento della Germania, l’1,3 della Spagna, l’1,5 della Francia, per non parlare degli inglesi che sfiorano il 2 per cento. Solo se ripartono gli investimenti si potrà pensare di eliminare gradualmente il numero chiuso per sostituirlo, magari, con un sistema di selezione in itinere.

La legge di Bilancio 2019

Invece, nell’ultima legge di Bilancio, con una mano sono stati dati più soldi (40 milioni all’università e 10 milioni alle borse di studio), ma con l’altra sono stati congelati almeno fino a luglio per via degli accantonamenti imposti ai vari ministeri. Ed è vero che in chiusura d’anno sono state finalmente sbloccate 2.000 assunzioni per coprire i pensionamenti del 2017, ma i 440 docenti in più del normale turnover concessi alle università virtuose non solo tagliano fuori la maggior parte degli atenei del Sud con i conti scassati dalla fuga di iscritti e dall’impossibilità di far leva sulle rette, ma cominceranno ad arrivare non prima di dicembre per via del blocco delle assunzioni nella Pubblica amministrazione. E così un altro anno è andato


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