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Più fondi alle università di periferia per battere spopolamento e povertà

L'imminente chiusura del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza offre l'occasione di intervenire su una delle cause, a un tempo, dell'ormai più che ventennale arresto di produttività e delle gravi disuguaglianze del paese: l'investimento insufficiente in istruzione e ricerca

10/04/2021
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La Stampa

FAbrizio Barca - Fulvio Esposito

L'imminente chiusura del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza offre l'occasione di intervenire su una delle cause, a un tempo, dell'ormai più che ventennale arresto di produttività e delle gravi disuguaglianze del paese: l'investimento insufficiente in istruzione e ricerca. Se era (ed è) inaccettabile il precoce indirizzamento dei giovani (basato di regola sul censo) verso l'istruzione "professionale", e quindi l'esclusione dal proseguimento degli studi, aprire a tutti la prospettiva di raggiungere «i più alti gradi degli studi» e poi rinunziare ad assicurare a tutti i contenuti sostanziali di quegli studi, tollerando grave dispersione, basse immatricolazioni nell'università e livelli qualitativi insufficienti, vanifica l'accesso universale a questo diritto, che rimane, di fatto, confinato a quote ridotte di cittadini e cittadine, aggravando faglie sociali e territoriali.

Nel caso dell'istruzione e ricerca universitaria, il ritardo è eclatante. Come ci ricorda Gianfranco Viesti (Corriere della Sera, 22 marzo), il finanziamento pubblico delle università è meno di 1/3 di quello francese, meno di 1/4 di quello tedesco; la percentuale di giovani laureati è di 11 punti inferiore a quella comunitaria. Non sorprende allora che, in occasione del Piano, su questo tema sia ripartito un confronto serrato. Con un punto di convergenza che vogliamo segnalare: non si pensi di compensare, una tantum, il divario con finanziamenti "straordinari", specie se assegnati senza una valutazione dei risultati raggiunti; si usi, piuttosto, il Piano per avviare un cambiamento permanente, fissando o testandone i criteri. La divergenza fra le opinioni espresse riguarda i criteri-guida di questo cambiamento. Su questo il Piano non potrà mancare di esprimersi.

Una prima tesi (Boeri-Perotti su La Voce e La Repubblica) ragiona a risorse date, rinunziando a prendere di petto il divario quantitativo di finanziamenti. E sostiene che, comunque stiano le cose, che si investa tanto o poco, la capacità del sistema di «migliorare la qualità della ricerca» sarà assicurata da una forte concentrazione dei finanziamenti, che premi ben più di oggi gli atenei considerati «migliori» in base alla «valutazione della qualità della ricerca» (Vqr), un processo centralizzato di peer review «imperfetto ma applicato ovunque». Che l'applicazione di quel criterio provochi concentrazione sarebbe inevitabile, perché nella ricerca sono fondamentali le economie di agglomerazione e assai elevati i costi fissi, che si diluiscono con il crescere della scala. Una seconda tesi, non solo contesta che la concentrazione sia di certo efficiente – in molti campi della ricerca, scrive Viesti, la circolazione dei ricercatori e la contaminazione di «centri minori» sono fattori di successo – e ricorda il rischio che gli indicatori per valutare la qualità non siano in grado di catturare la «rilevanza futura» della ricerca, ma soprattutto si pone la domanda che la prima tesi scantona: migliorare la qualità della ricerca … con quale obiettivo?

Ora è ben evidente il ruolo decisivo svolto nell'avanzamento umano dalla «ricerca trainata dalla curiosità», una ricerca che non deve essere giustificata, né dal consenso dei «pari» – come per gli indicatori di Boeri e Perotti – né dal suo impatto sociale, che magari si manifesterà nelle decadi a venire. Ma è proprio per questo che un sistema lungimirante assicura con adeguate risorse il pluralismo e la vita di un numero elevato di centri universitari, garantendone le condizioni di lavoro e reclutamento, favorendo la loro specializzazione, valutandole e esponendole alla critica della comunità locale, nazionale e internazionale, e mirando a portare alla laurea (intesa come titolo corrispondente ad un contenuto sostanziale di sapere) almeno la metà della popolazione giovanile. E poi, una volta soddisfatto questo requisito, stabilisce obiettivi nazionali di sviluppo, e rispetto a essi alloca «risorse aggiuntive»: ai risultati attesi nei progetti proposti e al loro esito. A riguardo, ci convince l'obiettivo riassunto da Elena Cattaneo (Repubblica, 19

marzo): «favorire l'innovazione e lo sviluppo dei territori, specie quelli più svantaggiati». E aggiunge: «L'obiettivo è rendere la ricerca un veicolo per trasformare le conoscenze specialistiche in sapere collettivo, volano di crescita sociale, culturale ed economica in territori a fortissimo rischio di spopolamento e impoverimento». Un terzo della popolazione italiana vive in «aree interne», lontane dai centri urbani. Sono luoghi con straordinarie possibilità di sviluppo, ai quali le università tutte, quelle prossime con particolari vantaggi, possono dare un contributo decisivo.

Utilizziamo, allora, le risorse del Piano per avviare e testare una riforma strutturale del modello di finanziamento delle università. Un modello in cui il fondo di finanziamento ordinario, decisamente e gradualmente incrementato, torni ad essere, appunto, ordinario, serva cioè ad assicurare le funzioni-base di una struttura universitaria policentrica e diffusa nei territori. Accanto ad esso – e distinto da esso – si preveda un cospicuo fondo premiale, da assegnare a progetti di sviluppo ambiziosi e fattibili, con risultati attesi anch'essi ambiziosi, ma la cui ambizione sia commisurata alle condizioni di partenza, perché non si può giocare in sette contro undici e in un campo che pende verso la porta difesa dai sette. E una quota importante del fondo premiale sia destinata a programmi volti allo sviluppo dei territori svantaggiati, delle aree interne.

La sperimentazione di questo modello durante gli anni "coperti"' dai fondi del Piano consentirebbe di metterlo a punto nei dettagli, per giungere poi alla realizzazione di una riforma in grado di camminare con le proprie gambe, grazie ad un processo di sviluppo che si autosostiene e che contribuisce alla sostenibilità complessiva di un paese in cui la disuguaglianza sia sostituita dalla diversità e la coesione sociale non sia più solo un auspicio.—


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