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Personalizzazione sì, ma no all’abolizione del valore legale dei titoli di studio

Per non parlare dei laureati che in Italia sono il 15% della popolazione attiva contro una media nei paesi dell’OCSe del 32%.

10/01/2015
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Retescuole

di Bruno Moretto 

La proposta di documento della VII Commissione del Senato della relatrice Puglisi è un documento interessante e sicuramente più ragionato rispetto a quello governativo.

Resta il problema della sua posizione ideologica di fondo, ben riassunta nell’articolo di Stefanel.

In sintesi nel documento della Puglisi si sostiene:
1) che la nostra scuola è classista;
2) che l’alto numero di abbandoni scolastici è colpa del nostro sistema scolastico, troppo rigido e poco incline alla personalizzazione degli interventi;
3) che anche l’alto livello di disoccupazione giovanile è colpa della scuola.

Il nostro sistema scolastico sicuramente favorisce chi proviene dalle famiglie più acculturate. Ogni statistica lo conferma. Ma questo è un fenomeno comune a tutti i paesi. Un fenomeno che si va accentuando a causa della crisi in atto che sta aumentando vertiginosamente le diseguaglianze.

Si tratta di stabilire se il nostro sistema sia peggiore degli altri da questo punto di vista, cosa che Puglisi e Stefanel assumono in modo assiomatico.
I recenti dati di An education at a glance 2014 dell’OCSE evidenziano invece che nel nostro sistema le condizioni socio economiche dei genitori incidono sui risultati dei figli solo per il 10% contro una media dei paesi più sviluppati del 15% e punte del 17-20% in Germania, Danimarca e Belgio, mentre in Finlandia incide solo per il 9%. Sempre l’OCSE evidenzia come uno studente di condizioni socioeconomiche basse ha in Belgio e Germania probabilità 5 volte più alte di ottenere risultati scarsi rispetto a uno di condizioni economiche migliori, negli Stati uniti di tre volte e mezzo. In Italia la probabilità è solo di 3 ed è vicina a quella di Finlandia e Svezia.

Non c’è dubbio che l’Italia soffra di un alto numero di abbandoni che si concentrano soprattutto in alcune zone del paese (nel sud ma anche nel nord est).
Ciò però va letto alla luce di due questioni: quella storica per cui ancora oggi il tasso di diplomati sulla popolazione attiva (25-64) è del 56% contro una media OCSE del 76% e nella fascia di età 55-64 è solo del 40% contro una media del 65%. Uno dei grandi risultati non riconosciuti del nostro sistema è l’aver portato in 30 anni il numero dei diplomati dal 40 al 71%. Per quanto riguarda i 19enni la percentuale arriva al 79%.
Per non parlare dei laureati che in Italia sono il 15% della popolazione attiva contro una media nei paesi dell’OCSe del 32%. A proposito delle conseguenze della crisi in atto è preoccupante il netto calo avvenuto fra il 2003/04 e il 2012/13 del tasso di passaggio dalla scuola superiore all’università: dal 72,6 % al 55,7% (fonte annuario Istat 2014).
Come evidenziato da un recente studio di Almadiploma dell’Università di Bologna  il 65% dei diplomati che proseguono gli studi vengono dal liceo classico e scientifico, ma l’82% degli immatricolati universitari proviene da famiglie i cui genitori non hanno esperienze universitarie. Come si fa allora ad affermare allora che la nostra scuola selezioni in modo classista?

La seconda questione attiene alla precocità della scelta dell’indirizzo superiore.

La ricerca evidenzia come il 46% degli intervistati afferma di aver sbagliato tale scelta. Ciò produce un tasso alto di dispersione per cui il 15% abbandona dopo il primo anno di università.
La proposta di Alma diploma è quella di un biennio comune che sposti la scelta dell’indirizzo ai 16 anni. Le stesse raccomandazioni della Commissione e del Consiglio d’Europa sono tutte contro la precocità della scelta di studio. Di tutto ciò però non c’è traccia né nel documento buona scuola né in quello della Puglisi, mentre è presente nel ddl della legge popolare.
Addebitare poi alla scuola l’alto tasso di disoccupazione giovanile è un assunto demagogico e indimostrabile. Perché non si dimostra la stessa attenzione all’arretratezza tecnologica e di investimenti del nostro settore produttivo? Ci sono fior di ricerche che dimostrano la tendenza soprattutto della nostra piccola e media industria ad assumere più per conoscenza che in base ai curriculum su cui si continuano ad impegnare senza successo i nostri giovani trovando invece soddisfazione crescente all’estero.
La questione della disoccupazione giovanile ha a che fare comunque più con le caratteristiche del mercato del lavoro che con la scuola.
Siamo di fronte a una crescente precarizzazione e dequalificazione di ampi settori del mercato che penalizza i nostri diplomati, in analogia a quanto accade nei paesi anglosassoni.
Secondo la ricerca Alma diploma fra i neo diplomati chi ha un lavoro a tempo indeterminato rappresenta appena il 10% quota che aumenta dopo cinque anni al 36%. I neo diplomati guadagnano in media 611 euro mensili netti; dopo cinque anni il guadagno sale a 908 euro.

Il mercato del lavoro americano a cui si guarda con interesse è caratterizzato da un forte tasso di precarietà. I posti di lavoro che aumentano sono quelli a chiamata diretta e a bassa qualificazione.

Un articolo del 7/01/15 di E. Franceschini su Repubblica parla di servizi che ti mandano a casa o in ufficio un addetto alle pulizie o un idraulico o qualcuno che ti faccia la spesa al supermercato o anche un avvocato.
Lo stesso Franceschini conclude che la “Tu Spa”  rischia di somigliare però al vecchio lavoratore a cottimo in ansiosa attesa che il caposquadra scelga lui e non un altro per una singola giornata lavorativa.

Per finire la proposta di una maggiore personalizzazione del curriculum dello studente è condivisibile, ma ne vanno precisate le finalità formative

In ogni caso un giudizio definitivo si può dare solo in funzione della sua incidenza oraria e dalla quantità degli investimenti che fino ad oggi l’hanno resa irrealizzabile.
Ciò che rende preoccupante la proposta è la conseguenza (ovvia per Stefanel) dell’eliminazione del valore legale del titolo di studio, tenendo presente che i paesi senza valore legale sono proprio quelli di area anglosassone.

Eliminare il valore legale vuol dire produrre il mercato dei diplomi con la conseguenza di accentuare le disuguaglianze fra chi potrà permettersi di accedere alle scuole considerate migliori (magari perché dotate degli insegnanti più bravi e meglio pagati) e chi no.
Non è che chi sostiene questa tesi (a partire da Confindustria) abbia aderito all’assunto che gran parte dei lavori futuri debbano necessariamente essere dequalificati e precari, destinati a chi ha meno mezzi, e che anche la scuola debba adeguarsi a ciò?

Io penso invece che dovremmo essere orgogliosi di avere un sistema scolastico a cui la nostra Costituzione ha affidato il compito primario di dare a tutti i giovani  un’istruzione in grado di renderli cittadini capaci di concorrere allo sviluppo sociale e politico del paese e di decidere in libertà il proprio futuro, non di formare dei lavoratori molti dei quali precari a vita.
Un compito che oggi stenta a perseguire a causa dei pesanti tagli agli investimenti pubblici degli ultimi 5 anni che ci hanno portato ad essere l’ultimo fra i paesi europei.
Un sistema che deve essere migliorato e reso più adeguato ai tempi, che deve affrontare seriamente il problema dell’orientamento per il post diploma, ma non stravolto.
E’ ciò che tenta di fare la proposta di legge popolare per una buona scuola per la Repubblica.

di Bruno Moretto (Comitato bolognese Scuola e Costituzione)

https://www.pavonerisorse.it/buonascuola/personalizzazione_no_abolizione.htm


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