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Perché torna la fiducia nei buoni maestri

Oltre metà dei cittadini, il 53%, continua, infatti, a guardare la scuola con fiducia. Mentre circa il 60% si dice soddisfatto del funzionamento delle scuole, di diverso tipo e livello

18/10/2014
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la Repubblica

ILVO DIAMANTI

LA CREDIBILITÀ della scuola: non è più la stessa di un tempo. Ancora nel 2005, meno di 10 anni fa, il 60% degli italiani esprimeva fiducia nei suoi confronti. Oggi non più. Eppure il sondaggio di Demos-Coop, condotto nei giorni scorsi per la Repubblica delle Idee, dimostra come la valutazione nei suoi riguardi sia ancora molto positiva. Oltre metà dei cittadini, il 53%, continua, infatti, a guardarla con fiducia. Mentre circa il 60% si dice soddisfatto del funzionamento delle scuole, di diverso tipo e livello. In primo luogo di quelle elementari (65%), quindi dell’università e, in misura più limitata, delle medie. Più di 6 persone su 10, inoltre, manifestano fiducia nei confronti degli insegnanti. Pubblici. Perché la differenza tra istruzione pubblica e privata, negli orientamenti dei cittadini, si conferma elevata e significativa. A tutto vantaggio del pubblico, che appare molto più credibile, fra i cittadini. Che si tratti delle scuole o degli insegnanti.
Peraltro, il prestigio della “professione” del docente continua a essere ritenuto elevato e in crescita rispetto al passato recente. Soprattutto riguardo ai “maestri” e ai “professori universitari”. Anche se quasi tutti (docenti compresi) vorrebbero che gli insegnanti venissero valutati e trattati su basi maggiormente “meritocratiche”. Perché non tutti i maestri, non tutti i professori sono egualmente disponibili, capaci, preparati, impegnati… La scuola continua, dunque, a costituire un riferimento importante, anzi, essenziale per i giovani e per le loro famiglie. Accettato e apprezzato, sul piano educativo e formativo, ma anche della socializzazione e dell’inserimento nel mondo del lavoro. Non per caso, 2 persone su 10 indicano il “titolo di studio” tra i fattori più di successo nel lavoro. Al secondo posto, dopo le “capacità personali”. Davanti al “sostegno di conoscenti, amici”. E parenti.
Tuttavia, se la scuola è – dovrebbe essere – un importante meccanismo di promozione sociale, il disincanto appare diffuso e crescente. Il 73% ritiene, infatti, che la posizione sociale dei giovani, rispetto a quella dei genitori, sia destinata a peggiorare. Solo due anni fa, nel 2011, lo pensava il 63%. Dieci punti in meno. Così, parallelamente, è cresciuta la componente di italiani che vede l’unica speranza, per i giovani, altrove. Per avere un futuro migliore, per realizzarsi davvero, i giovani se ne devono andare. Lontano dall’Italia. Ormai lo pensano quasi 7 italiani su 10. Qualche anno fa erano 5. Personalmente, ho sempre osservato con scetticismo le polemiche sulla presunta “fuga dei cervelli”. È esattamente questo il “vizio” italiano. Lo scarso potere di attrazione esercitato nei confronti dei “cervelli”. Italiani e non. A ciò contribuisce il basso livello di investimenti – pubblici e ancor più privati - nel sistema formativo e nella ricerca. Ma il limite più evidente, agli occhi dei cittadini, dipende dal limitato grado di relazione fra sistema scolastico e mercato del lavoro. L’indagine di Demos- Coop lo conferma ampiamente. I principali problemi della nostra scuola, secondo gli italiani (intervistati) sono: la mancanza di fondi e di risorse e poi lo scarso collegamento con il mondo del lavoro. E non per caso oltre 9 persone su 10 vedono con favore riforme e proposte politiche volte a sviluppare l’alternanza fra scuola e lavoro. Ma anche favorire l’apprendimento delle lingue straniere e l’acquisizione di conoscenze informatiche e di competenze digitali.
Così si spiega il giudizio degli italiani su “La Buona Scuola”, disegnata dal progetto di riforma del governo Renzi. Sicuramente positivo. Eppure, in qualche misura, ancora “sospeso”. A causa delle difficoltà di trovare – e investire - davvero le risorse necessarie, promesse. Non a caso, solo una minoranza – per quanto larga: il 44% - ritiene che le riforme proposte da Renzi miglioreranno la scuola italiana. Gli altri ne dubitano. Oppure temono che peggiorerà.
Per questo, prima e più ancora che dal jobs act, il destino del governo dipende dalla riforma della scuola. Perché non esercita i suoi effetti sui meccanismi che regolano il mercato del lavoro, ma sulle “premesse” che ne condizionano il funzionamento. Sui requisiti tecnici e culturali che favoriscono lo scambio - e la chiusura - tra società e lavoro. Così, la mobilitazione degli studenti “contro” la riforma, mi sembra, comunque, utile. A promuovere, oltre che a “riformare”, la riforma stessa. Un modo per ribadire – gridare - al governo, ai soggetti e agli uomini politici: la scuola, prima di tutto.

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