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Perchè seghiamo il ramo che ci regge

L’Accademia europea per la scienza, che raggruppa una parte ampia degli scienziati europei, ha inviato qualche settimana fa una lettera aperta al Parlamento e alla Commissione europea. Gli scienziati protestano contro il piano Juncker di investimenti: al fine di recuperare il denaro necessario, sono stati decisi tagli ingentissimi (

21/12/2014
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Corriere della sera

Angelo PAnebianco

I l futuro non abita più qui? L’Accademia europea per la scienza, che raggruppa una parte ampia degli scienziati europei, ha inviato qualche settimana fa una lettera aperta al Parlamento e alla Commissione europea. Gli scienziati protestano contro il piano Juncker di investimenti: al fine di recuperare il denaro necessario, sono stati decisi tagli ingentissimi (di oltre un miliardo di euro) a Orizzonte 2020, il fondo europeo per la scienza. In una situazione, per giunta, in cui la spesa europea per la ricerca scientifica è già oggi di quasi un punto in percentuale al di sotto di quella degli Stati Uniti. La solita protesta corporativa contro i tagli? Non proprio, se si considera che mentre si colpisce la ricerca scientifica non si tocca la Pac, il baraccone protezionista della politica agricola europea. La protesta dell’Accademia contro i tagli Ue alla ricerca segue di poco, peraltro, l’allarme lanciato da diversi scienziati europei contro le prevalenti politiche nazionali: politiche che ormai penalizzano gravemente la ricerca di base (la vera fonte delle nuove conoscenze) a vantaggio della ricerca applicata, la quale sola è passibile di impieghi economici immediati.
Molti forse pensano che questi problemi riguardino solo gli addetti ai lavori e che, per giunta, in un’epoca di recessione economica, non ci si possa permettere il lusso di dedicare fondi rilevanti alla ricerca scientifica. Ma le cose sono più complicate. Perché i tagli alla ricerca, diventando strutturali, e quindi permanenti, finiscono per favorire la decadenza economica di un Paese, o anche di un Continente. Si rischia di non accorgersene a causa dell’inevitabile sfasatura temporale: recuperare soldi dalla ricerca per contrastare la recessione economica qui e ora è una tentazione irresistibile dal momento che gli effetti negativi di quei tagli si potranno sentire solo nel lungo termine (quando, per giunta, gli autori dei tagli non saranno più lì, nelle posizioni che oggi occupano, per risponderne politicamente).
La «ricchezza delle nazioni», il benessere collettivo, dipende da una pluralità di circostanze favorevoli, ma le due in assoluto più importanti sono sicuramente l’esistenza di condizioni di libertà personale e, appunto, lo sviluppo scientifico. Eliminate l’una o l’altra condizione e, alla fine, il benessere svanirà.
Si aggiunga che la frenata europea alla ricerca si somma a trasformazioni culturali che stanno anch’esse, da tempo, ispirando politiche sfavorevoli allo sviluppo e che sono influenzate da teorie di assai dubbia qualità: dai forti tagli alle emissioni di anidride carbonica (criticati recentemente dal Nobel Carlo Rubbia) all’eccesso di vincoli in materia di Ogm.

C ome ha osservato l’ Economist , in Europa stiamo pagando le conseguenze del pervertimento del cosiddetto «principio di precauzione»: da invito a esigere seri controlli e sperimentazioni si è trasformato in un puro e semplice divieto di qualunque innovazione. In sostanza, ci sono abbondanti segnali secondo cui l’Europa ha ridotto la sua disponibilità ad investire sul proprio futuro. Se non vogliamo limitarci a una invettiva moralistica dobbiamo chiederci perché questo accada.
Una spiegazione purtroppo c’è. Investire nella scienza e scommettere sull’innovazione implicano la disponibilità e la volontà di pensare il futuro. Ma a pensare il futuro sono, per lo più, le società giovani, demograficamente vitali, non quelle invecchiate e stagnanti. Il declino della ricerca va associato al declino demografico dell’Europa. Il suo Paese leader, la Germania, ha un indice di natalità fra i più bassi. Va peggio della Spagna e dell’Italia. Se la cavano meglio Francia, Olanda, Svezia, Gran Bretagna, Irlanda. Ma non al punto da compensare il declino demografico degli altri Paesi. E la gran parte delle nascite è oggi dovuta all’immigrazione. Le società che invecchiano, naturalmente, vogliono che i soldi pubblici vadano in previdenza e assistenza, non in istruzione e ricerca. In tutto ciò non c’è nulla di strano: la bassa natalità dell’Europa è figlia di un benessere che è qui con noi da molto tempo. È la trappola in cui rischia di cadere chi ha avuto a lungo successo. Un alto sviluppo economico può portare al declino demografico, all’invecchiamento e a trasformazioni sociali e culturali ( in primis il rifiuto dell’innovazione) che alla lunga favoriscono il declino economico. Detto in altri termini: seghiamo il ramo su cui siamo seduti.
Non c’è però nulla di predeterminato in questi processi. Benché anche in America le conseguenze del benessere si siano riflesse sui tassi di natalità (ma la situazione non è altrettanto grave che in Europa o in Giappone), ciò non ha ridotto la spinta ad investire in scienza, ricerca, innovazione. L’America è oggi appannata, dà talora l’impressione di essere un pugile suonato, ma forse il suo tanto discusso declino è solo un fatto congiunturale: essa conserva, pressoché intatte, le risorse culturali e morali che potranno garantirne ancora a lungo ricchezza e potenza. È dubbio che ciò si possa dire dell’Europa.
 


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