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Perchè la scuola ha a che fare con Brexit

Tobia Zevi

02/07/2016
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L'Huffington Post

Il recente referendum sulla Brexit testimonia una volta di più quanto le nostre società siano lacerate: tra città e campagne, tra giovani e anziani, tra ricchi e poveri. Questa geografia così netta intacca i principi stessi delle nostre democrazie: è giusto consultare con più frequenza i cittadini se a vincere sono le paure, gli slogan, i populismi? Non aiutano, in questo senso, i nuovi strumenti di comunicazione di massa, a partire dai social network, che ci vincolano a forme di dialogo rapide, faziose e spesso conflittuali.

A ben vedere, tra i pochi strumenti che ancora unificano la compagine sociale si trovano due vecchi arnesi novecenteschi, la televisione e la scuola. Con la differenza che questa ultima - se funziona - favorisce l'ascensore sociale, quel meccanismo virtuoso per cui gli alunni più poveri possono, se studiano, avere accesso a opportunità migliori dei loro genitori, mentre la tv fornisce sì codici e linguaggi condivisi (furono fondamentali, ad esempio, per diffondere l'idioma nazionale) ma non strumenti di emancipazione collettiva.

In altre parole, il cittadino si forma a scuola. E dunque, se si vuole evitare che il voto democratico si trasformi in una serie di shock ripetuti, in cui metà del corpo sociale rimane attonita a scoprire ciò che pensa l'altra parte, dalla scuola occorre ripartire, come del resto Matteo Renzi ha sostenuto fin dal principio della sua esperienza di governo. Molto utile, in questa ottica, un libretto di alcuni mesi fa: "Quale scuola? Le proposte dei Lincei per l'italiano, la matematica e le scienze", a cura di Francesco Clementi e Luca Serianni.

Il volume prende le mosse dal progetto "Una nuova didattica per la scuola: una rete nazionale", promosso dall'Accademia nazionale dei Lincei. In sostanza, un vasto piano di formazione degli insegnanti dalla scuola elementare a quella superiore in tre ambiti distinti: lingua italiana, logica e matematica, scienze naturali. Grazie alla creazione di poli regionali, con il contributo delle varie università e del sistema scolastico locale, gli insegnanti partecipano a percorsi di formazione laboratoriali, confrontandosi con altre esperienze e definendo nuove e più efficaci modalità della didattica.

Questa iniziativa, certamente all'avanguardia, ci consente di individuare alcuni difetti storici del nostro paese quando si parla di scuola: un certo sussiego nei confronti di quei "men of little showing" (cioè i docenti) che con il loro impegno oscuro consentono al grande scienziato di divenire tale, come pure al "cervello in fuga" di avere qualcosa da esportare; la separazione tradizionale tra materie umanistiche e quelle scientifiche, dove le seconde sono ancelle delle prime e poco considerate; la tentazione "disciplinare" della scuola a scapito dello sviluppo di competenze: non ha senso pensare all'apprendimento dei ragazzi se si prescinde dal contesto famigliare e sociale, e non serve ammannire Alessandro Manzoni (per carità...) se il discente non è in grado di comprendere un articolo di giornale; la difficoltà a immaginare percorsi "verticali", che cioè mettano al centro il giovane e considerino la sua crescita come un'unica evoluzione, anziché tracciare uno sviluppo fatto di ostacoli (esami) e ripetizioni (a livello di contenuto).

Il libro raccoglie vari saggi distribuiti sui tre ambiti, alcuni dei quali presentano interessanti interferenze (ad esempio, quello di Laura Catastini sul rapporto tra matematica e musica nella dinamica di apprendimento). Inoltre, il testo è impreziosito da un corposo saggio introduttivo di Tullio De Mauro - linguista e già Ministro dell'Istruzione - sulla scuola italiana, un'analisi retrospettiva di ampio respiro che parte con l'Unità d'Italia e giunge ai giorni nostri, fermandosi però prima della "Buona scuola".

Se volessimo usare una metafora urbana, potremmo affermare che la scuola italiana descritta da De Mauro assomiglia a una città dal centro ben tenuto e dalla periferia degradata. Nel centro si trovano la scuola materna e quella elementare: frequenza praticamente universale da parte delle classi anagrafiche interessate, dispersione molto bassa, rendimento degli studenti più alto rispetto agli altri paesi Ocse, modelli didattici aggiornati alle più recenti impostazioni culturali. Allontanandosi verso i primi sobborghi si incontrano, ai due estremi anagrafici, asili-nido e scuole medie, che oggi si chiamano "secondarie di primo grado": per i nidi, il problema fondamentale è la disponibilità dei posti, che colloca l'Italia al vertice basso della classifica rispetto ai paesi sviluppati, pregiudicando le donne nel loro accesso al lavoro; nel caso della vecchia media, invece, le competenze dei ragazzi rimangono accettabili nei test internazionali, ma manca una definizione chiara sul ruolo di questo passaggio in rapporto al precedente e in previsione di quello successivo.

Infine, nella periferia più estrema - quella che di sera bisogna frequentare con circospezione - troviamo la scuola superiore: fatte salve le ovvie differenze tra singoli istituti, aree del paese, tipologie di scuola, generi (le ragazze sono più brave), ecco il punto debole del nostro sistema: dispersione elevatissima e scarso sviluppo di competenze da parte dei maturati. Addirittura, secondo alcune indagini, un giovane che completa il proprio percorso di studi secondari mostra un plafond di competenze più o meno analogo a quello che possedeva al termine delle medie!

Intendiamoci, non è giusto e non è utile essere disfattisti. La scuola italiana ha molte eccellenze e all'estero non ridono come talvolta ci piace credere; in più, occorre ricordare che è grazie alla scuola, soprattutto elementare, che il nostro capitale umano è cresciuto nel dopoguerra più che in qualunque altro paese al mondo a parte la Corea del Sud, passando da una condizione di sottosviluppo a una avanzata. E tuttavia, se vogliamo crescere in futuro cittadini consapevoli in un mondo sempre più complesso, della scuola occorre continuare a occuparsi, tornare a discutere. Con uno sguardo di lungo periodo.


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