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“Per colpa del governo tornerà il numero chiuso”

Una norma penalizza gli atenei dove aumentano gli studenti

28/03/2017
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La Stampa

Giuseppe Bottero

«L’Università sta facendo i conti con un paradosso: rischia di dover reintrodurre il numero chiuso perché ha troppo successo». Franca Roncarolo, direttrice del dipartimento di Culture, Politica e Società dell’ateneo torinese, è preoccupata. Le nuove regole che il governo ha messo in campo con l’obiettivo di tutelare gli studenti, dice, hanno l’effetto perverso di penalizzarli, chiudendo loro le porte delle università migliori. Nel mirino c’è un decreto firmato dalla ministra dell’Istruzione Stefania Giannini mentre entrava in carica l’esecutivo Gentiloni. «Modifica il numero di docenti che è necessario dedicare in modo esclusivo a ciascun corso di studi affinché sia sostenibile: in alcuni ambiti - e soprattutto nell’area delle scienze sociali - i docenti necessari per 300 studenti ora bastano appena per 250», spiega Roncarolo, molto critica perché la mossa si scontra con i limiti alle assunzioni e mette in difficoltà chi, come l’università di Torino, avrebbe la forza di crescere. 

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Professoressa Roncarolo, perché sostiene che la ministra dovrebbe cambiare le regole?  

«Se un’azienda cresce, assume personale. L’università lo può fare in misura minima, inadeguata. Nell’ultimo decennio a Torino abbiamo perso 300 docenti, mentre gli studenti immatricolati aumentavano: complessivamente +8% nell’ultimo anno, confermando la tendenza dell’ultimo triennio». 

Come ci siete riusciti?  

«Abbiamo fatto un grosso investimento, nella qualità della didattica e nella progettazione». 

Quali sono i corsi che vanno meglio?  

«Quelli internazionalistici - triennale e magistrale - , che sono passati da più di 400 studenti a quasi 700 in 3 anni. Sono corsi di studio multidisciplinari che formano giovani destinati a trovare occupazione in settori d’avanguardia di diverse organizzazioni, comprese le aziende. Si tratta di studi specializzati sulla Cina, sul Mediterraneo, sull’Unione Europea. Ma anche i corsi di laurea in comunicazione crescono, con picchi dell’80 per cento». 

Eppure per anni si è detto che si tratta di lauree deboli, che non aprono le porte al mondo del lavoro.  

«Si tratta di una vulgata del tutto infondata. Più della metà dei laureati nei corsi di laurea magistrali in comunicazione, a un anno dal conseguimento del titolo, dichiarano ad Alma Laurea di lavorare. Il dato sale poi oltre il 70% se si tiene conto dei laureati che svolgono stage retribuiti, porta d’accesso principale per i giovani che entrano nel mondo del lavoro. Questi settori, per come sono impostati all’Università di Torino, sono ricchi di contenuti, forniscono strumenti che i laureati possono spendere trasversalmente».  

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Che cosa significa?  

«Uno studente competente nelle nuove tecnologie, nella comunicazione, anche se va a fare una professione non correlata con il corso, ha degli strumenti in più, lo stesso vale per l’ambito internazionalistico». 

Dunque se tornasse il numero chiuso si ridurrebbero le opportunità professionali?  

«Per chi non entra, sì. I nostri corsi hanno un collegamento diretto col mercato del lavoro. E l’ateneo di Torino, in particolare, ha fatto un grosso sforzo favorendo il dialogo tra corsi di laurea e territorio». 

Qual è il risultato?  

«Il troppo successo ci si rivolta contro. Per il prossimo anno accademico siamo riusciti a far bastare i docenti, ma con le nuove regole non saremo più in grado di rispondere alla domanda di formazione da parte dei ragazzi. Se il governo non modifica il quadro ci troveremo costretti a rimettere il numero chiuso». 

Perché sarebbe così grave?  

«Il numero chiuso, soprattutto in quest’ambito di studi, penalizza gli studenti più consapevoli. A differenza delle materie scientifiche, nel campo delle scienze sociali, ogni corso di laurea ha contenuti diversi, per cui chi non entra a Torino difficilmente troverà un corso analogo altrove». 

Chi, tra gli studenti, sarebbe più penalizzato?  

«Le fasce più deboli. Chi ha le risorse economiche per farlo, potrebbe andare all’estero». 

È il motivo principale per cui dire no al numero chiuso?  

«Non è l’unico. L’Italia è un sistema in cui il tasso di laureati è ancora nettamente inferiore rispetto alla media europea. Solo una parte di studenti sarebbe pronto a spostarsi da un corso di laurea all’altro, tradendo la propria vocazione». 

Come se ne esce?  

«Chiediamo al governo di ripensare queste misure. Ha ereditato un dispositivo approvato in corsa, che produce effetti perversi, sicuramente non intenzionali, ma molto critici. Inoltre servono delle regole diverse dal punto di vista del reclutamento». 

Come dovrebbero cambiare?  

«Occorre distinguere tra un reclutamento di base e uno di premialità, che risponda alle esigenze degli atenei capaci di dimostrare, numeri alla mano, di essere più attrattivi. Una sorta di doppia corsia che garantisca a chi fa meglio la possibilità di incrementare il proprio corpo docente». 

È pessimista?  

«Sono preoccupata. È necessario che ci siano delle regole più stabili. Invece ci siamo trovanti di fronte a piani straordinari di reclutamento che vengono cambiati in corsa o soppressi. Non si può fare una programmazione in questo modo. Nel prossimo triennio, a livello nazionale, ci vorrebbero almeno 10 mila nuovi ricercatori». 

Perché Torino è in prima fila in questa battaglia?  

«Torino si è candidata a essere una città universitaria, ha dimostrato di avere tutti i requisiti, ora ha bisogno dell’aiuto del governo. L’alternativa è fare un passo indietro. Siamo a una svolta, questo è il momento di decidere». 


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