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Per chi suona la campanella della libertà

Manifesto per la scuola rimandata a settembre

04/07/2020
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la Repubblica

di Franco Lorenzoni

Il 15 gennaio 1945, prima ancora che finisse la guerra, Anna Maria Melli fondò con suo marito Ernesto Codignola " Scuola- Città Pestalozzi" nel rione Santa Croce, allora tra i più poveri di Firenze. La scuola nacque per offrire alle famiglie più disagiate «uno spazio educativo per la formazione del cittadino, dove coniugare l’istruzione e il consolidamento di una coscienza civica e democratica». L’anno seguente venne riconosciuta dal ministero della Pubblica istruzione come scuola di «differenziazione didattica » perché proponeva il tempo pieno come indispensabile supporto nel contrasto delle discriminazioni sociali. Torno a quell’evento lontano perché la relazione con la città e la questione del tempo sono centrali per ripensare alla scuola e risarcire il milione e mezzo di studenti esclusi per mesi da ogni forma di istruzione. Non è mai troppo tardi.

Oggi la scuola, per svolgere pienamente la sua funzione costituzionale e garantire una buona istruzione per tutti tutelando i più fragili, ha bisogno di grandi investimenti, convinzioni profonde, formazione dei docenti e un riconoscimento sociale che le manca da decenni. Eppure, come negli amori finiti male, l’assenza ha suscitato inquietudini che hanno incrinato luoghi comuni consolidati. L’irruzione nello spazio domestico della didattica, con i volti di maestre e insegnanti che apparivano nelle ore più diverse, ha reso possibile un incontro ravvicinato con la pratica dell’insegnare che ha smosso qualcosa.

Le insegnanti più impegnate ( uso il femminile perché sono donne all’82 per cento, e salgono al 96 per cento nelle primarie) insieme ai loro colleghi si sono trovate a svolgere un lavoro del tutto inedito, quando si è trattato di andare a recuperare gli studenti persi per far loro arrivare i device forniti dalla scuola. In questa ricerca, che portava a un confronto diretto con il contesto sociale e antropologico dei propri allievi, hanno trovato spesso sostegno nei servizi sociali, negli operatori più radicati nel territorio e nelle stesse famiglie, che spesso si sono mostrate capaci di attenzioni reciproche e solidarietà inaspettate.

Scoprire con i propri occhi quanto le case siano ancor più discriminanti della scuola e avvilirsi per i troppi bambini e ragazzi ridotti a fantasmi perché irraggiungibili, ha portato a un bagno di realtà che ha ravvivato il senso di responsabilità sociale di una professione tristemente impoverita e troppe volte vilipesa. Anche l’essere costretti a cimentarsi con quell’inedita forma di non scuola rappresentata dalla didattica a distanza, ha comportato impegno e fatiche fuori dal comune e nuove domande sulla centralità del corpo e della presenza che potrebbero divenire generative. Ma per fare i conti con i propri limiti e, di conseguenza, anche con le proprie risorse e capacità, c’è bisogno di non sentirsi sotto assedio. Ecco perché quel piccolo varco di riconoscimento pubblico verso un mestiere sottopagato e sottovalutato va tenuto aperto con la massima attenzione, perché forse per la prima volta da tempo l’istruzione può tornare a essere considerata una priorità sociale.

Dalle crisi si può uscire in tanti modi. Ma le condizioni sono date dalle forze in campo e dalle idee che circolano, perché gli anni Trenta partorirono il New Deal, ma anche il nazismo. E allora va riconosciuto che le più interessanti idee educative in circolazione nascono dalle sperimentazioni più radicali, praticate nei territori a rischio o con i sempre più numerosi bambini e ragazzi in difficoltà che abitano le nostre scuole. Idee forgiate nell’attrito con ostacoli duri da rimuovere, da insegnanti capaci di mettersi in discussione nell’affrontare vecchie e nuove discriminazioni e dal miglior attivismo sociale, capace di grande vitalità pur nell’estrema frammentazione.

Il primo passo, suggerito da una vasta rete di reti chiamata " EducAzioni", riguarda l’impressionante carenza di nidi nei quartieri in cui ce ne sarebbe maggior bisogno, perché il modo più efficace per «prevenire le ineguaglianze nel corso della vita sta nell’investire sull’educazione di bambine e bambini da zero a tre anni».

Il secondo passo riguarda l’apertura della scuola alla città. Non si tratta solo di reperire nuovi spazi e immaginare nuovi modi di svolgere attività didattiche in giardini, terrazze, biblioteche, piazze o centri di aggregazione, ma di coinvolgere bambini e ragazzi in prima persona nella sfida di ripensare la città, arricchendo di altri punti di vista l’immaginario collettivo.

? continua nelle pagine successive f

La relazione con la città e la questione del tempo sono centrali per risarcire il milione e mezzo di studenti esclusi da ogni forma di istruzione

Le più interessanti idee educative in circolazione nascono dalle sperimentazioni più radicali, praticate nei territori a rischio Bisogna coinvolgere bambini e ragazzi nella sfida di ripensare lo spazio urbano, arricchendo di altri punti di vista l’immaginario collettivo

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