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"Ora finanziamo e rilanciamo l'Istituto superiore di sanità". Intervento di Francesco Sinopoli su L'Huffington Post

L'interrogativo sul rapporto tra gli italiani e la scienza non può che partire dalla centralità strategica degli enti di ricerca pubblica, soprattutto dopo la pandemia del Covid-19

07/05/2020
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L'Huffington Post

Mi sono trovato spesso in disaccordo con le posizioni del professor Angelo Panebianco. Ho trovato invece di grande interesse la riflessione che ha pubblicato sul Corriere della Sera mercoledì 6 maggio. Intanto perché pone giusti interrogativi sul rapporto tra gli italiani e la scienza, ma soprattutto perché conclude sollevando la questione principale di questi decenni, l’analfabetismo scientifico, ovvero, come scrive Panebianco: “veri cambiamenti saranno possibili solo se e quando le istituzioni educative, dalla scuola all’università, si dimostreranno capaci di rimediare alla piaga antichissima dell’analfabetismo. Senza di ciò, finita la pandemia, gli italiani continueranno a coltivare idee sbagliate”.

Nel ragionamento di Panebianco, le idee sbagliate sono quelle che considerano la scienza o come mera opinione, per cui “uno vale uno”, soprattutto in televisione, oppure come oracolo. Giustamente, Panebianco cita Popper, ma si potrebbe costruire un nutrito elenco di filosofi della scienza che hanno insistito sulla “scienza come impresa fallibile”. Basti qui citare la teoria di Kuhn sulle rivoluzioni scientifiche e sui cambi di paradigmi. O le riflessioni della scuola fenomenologica italiana da Enzo Paci a Carlo Sini.

Eppure, nonostante la giustezza delle riflessioni, c’è un punto sul quale vorremmo permetterci di integrare l’analisi del professor Panebianco. Un punto che riguarda l’esistenza in Italia di illustri centri di ricerca pubblici, con storie più o meno paradossali, e tra questi, in particolare, l’Istituto Superiore di Sanità. La risposta all’interrogativo di Panebianco sul rapporto tra gli italiani e la scienza non può che partire dalla centralità strategica degli enti di ricerca pubblica, dal modo col quale sono stati trattati dai decisori politici, dalla condizione di paradossale precarietà del lavoro scientifico in Italia.

Da questo punto di vista, e lo diciamo non solo al professor Panebianco ma all’intera classe politica, la storia dell’Istituto Superiore di Sanità rappresenta un caso “paradigmatico” nella storia controversa delle relazioni tra gli italiani, il potere politico italiano, e la scienza, dal momento che “la scienza” non è costituita da fantasmi ma da persone in carne e ossa, il cui lavoro quotidiano è decisivo per il progresso del Paese e per favorire un’uscita “ragionevole” dall’analfabetismo scientifico.

L’Istituto Superiore della Sanità è l’organo tecnico-scientifico del Servizio Sanitario Nazionale e persegue la tutela della salute pubblica in particolare attraverso lo svolgimento delle funzioni di ricerca, controllo, consulenza, regolazione e formazione. L’attenzione verso questo Ente, tra gli Enti di ricerca presenti nel nostro paese, e in ‘epoca’ di pandemia da Covid 19, è una straordinaria occasione per evidenziare le poco lungimiranti politiche di investimento nel settore conoscenza/cultura/ricerca che caratterizzano da più di mezzo secolo il governo del paese.

Ovviamente il tema è molto serio soprattutto quando il disinvestimento nei settori della conoscenza si palesa con la morte delle persone, la distruzione di territori, l’incapacità di organizzare tempestivamente risposte coerenti e univoche per il paese. Le emergenze da portare ad esempio sono vivide nella nostra memoria: il terremoto dell’Aquila, le inondazioni e le frane che colpiscono periodicamente alcuni territori italiani e infine l’emergenza Covid 19.

Ciascuno di questi esempi ci richiama all’importanza di Enti di ricerca pubblici dove lo studio e la ricerca forniscono, se messi nelle condizioni di farlo, evidenze insostituibili per la elaborazione delle politiche di prevenzione e di intervento a salvaguardia dei cittadini e dei territori.

Ora veniamo all’Istituto Superiore di Sanità. Il primo punto irrinunciabile è che la gestione sanitaria di una epidemia si basa sulla disponibilità tempestiva di dati affidabili, ovvero raccolti attraverso criteri metodologici scientificamente corretti. È necessario inoltre che sia attiva una pluralità di fonti informative con base storica. Il secondo punto da sottolineare è che una efficace risposta alla epidemia non è favorita da una gestione frammentaria di venti regioni che non dialogano, non si scambiano in modo strutturato le esperienze e le criticità e non condividono strumenti e metodi.

L’Iss ha coordinato un programma di formazione in epidemiologia applicata, proprio per sviluppare un linguaggio condiviso nelle varie realtà territoriali. Ora, come in altri episodi di emergenza da epidemie, risulta chiaro che la ricerca in campo sanitario non si può occupare solo di diagnosi e terapia, concentrando le risorse in reti di eccellenza, ma deve investire in interventi che aumentino la capacità di coordinamento degli interventi di sanità pubblica anche in regime ordinario con una ricaduta capillare sui territori.

Ciò comporta avere a disposizione una competenza epidemiologica della quale in modo univoco le Regioni e le amministrazioni locali, il Ministero della Salute e i governi possano fruire per le valutazioni puntuali su cui imbastire gli interventi di politica sanitaria. L’Istituto Superiore di Sanità ha avuto un importante ruolo in questo ambito, non solo di tipo formativo, ma anche attraverso la produzione di evidenze scientifiche utili a modellare flussi informativi di dati sanitari e sociosanitari per la sorveglianza epidemiologica delle malattie trasmissibili e non trasmissibili.

Ricordiamo che l’Iss attraverso la sua rete epidemiologica ha già affrontato emergenze come l’HIV e altre pandemie influenzali come l’influenza A/H1N1 del 2009 dando un contributo importante alla loro gestione e contenimento.

Qui veniamo però richiamati a una importante riflessione sul ruolo della conoscenza scientifica nella attuale governance: il nostro sistema di istituzioni, professionisti, forze economico-sociali e società civile hanno dimostrato in questo scenario pandemico di avere una scarsa literacy sugli aspetti epidemiologici oltre a dover fronteggiare gli effetti del depauperamento di risorse territoriali e nazionali fondamentali per agire con la tempestività e la competenza utili a affrontare emergenze di questo tipo.

La sensazione è che si navighi a vista, imparando sul campo come fare con la linea di comando, con la comunicazione, con l’uso della conoscenza scientifica e degli esperti, col bilanciamento della tutela dei diritti e degli interessi.

Tutto ciò, sebbene in parte comprensibile per la repentinità e virulenza della diffusione epidemica che ci ha colpiti, fa i conti con una mancanza di investimento su specifici asset del sistema sanitario, tra i prioritari: la epidemiologia territoriale, l’investimento sulla medicina generale territoriale e di un suo sistema informativo e di sorveglianza per la gestione domiciliare dei casi non ospedalizzati e dei contatti, la presenza di protocolli operativi da agire nei vari livelli organizzativi e specialistici del sistema sanitario.

Parallelamente, in piena rivoluzione digitale dobbiamo moltiplicare la capacità di gestione e diffusione dei dati, che deve passare da una necessaria costruzione scientifica e tecnologica. In questo quadro, la funzione di un Ente di ricerca come l’Iss è determinante per l’elaborazione e l’armonizzazione nazionale di una rete di servizi di epidemiologia regionali, che possano contribuire attraverso una regia nazionale alla promozione della salute pubblica mediante un quadro di evidenze scientifiche. Tra l’altro una regia nazionale delle reti di sorveglianza rappresenta uno strumento cogente per identificare se l’impatto della pandemia produca diseguaglianze in salute.

A partire dal 2014 si è bruscamente avuta un’inversione di marcia rispetto a queste attività dell’Iss, con un radicale disinvestimento nel capitale umano e di risorse di cui la responsabilità va in parte a carico della governance dell’Iss, ma anche delle politiche del Ministero della salute, che ha ridotto la possibilità di accesso a specifici finanziamenti, mettendo l’Iss sullo stesso piano di una amministrazione regionale. La mancanza di un investimento consolidato per lss, attraverso risorse di natura pubblica ha altre conseguenze generali, ma sempre evidenziabili attraverso la lente della pandemia Covid.

La presenza di un ente terzo che agisca tramite risorse pubbliche per la salute dei cittadini è di garanzia per molte iniziative sanitarie legate alla pandemia, come ad esempio: la certificazione dei dispositivi di sicurezza individuale, la validazione delle procedure di test sierologici, la caratterizzazione biologica della specie virale con conseguenze sullo sviluppo di terapie farmacologiche e vaccini, la messa a punto di indagini in diversi settori sanitari per la valutazione dell’impatto covid.

Tutte queste attività se non condotte con protocolli scientifici basati sulle evidenze e al di fuori di interessi particolari rischiano di ledere la salute di tutti e potenzialmente causare un uso non ottimale delle risorse dello Stato. L’Iss nell’ultimo mese ha dimostrato una impressionante resilienza, rendendo il servizio necessario nel comitato scientifico del governo, nelle funzioni di supporto alla verifica dei casi e nella certificazione dei prodotti di protezione che sono stati messi in produzione in modo estemporaneo.

L’Iss ha anche attivato numerosi gruppi di lavoro per fornire una informazione scientifica sulle caratteristiche epidemiologiche, ma anche per affrontare molti aspetti correlati alla pandemia, formulando indicazioni per la gestione dei rifiuti, la sanificazione indoor, la gestione dei focolai epidemici delle RSA, la preparazione dei servizi di salute mentale per possibili nuovi focolai di epidemie, e per gli interventi di informazione e counselling relativi alla gestione dello stress e alla mitigazione dell’ansia in situazioni emergenziali. Un’istituzione come l’ISS dovrebbe avere mezzi adeguati per partecipare alla ricerca biomedica di base e traslazionale per la quale tenacemente compete per i finanziamenti.

La scelta negli anni è stata quella di indebolire, non del tutto ma in buona parte, la funzione di coordinamento, armonizzazione e indirizzo per la ricerca sanitaria che l’ISS per sua missione di supporto tecnico scientifico al sistema sanitario nazionale dovrebbe svolgere, e la domanda di presenza e consulenza che in questi straordinari tempi di incertezza è stata richiesta all’ISS evidenzia la necessità di un tale riferimento, e bisogna con attenzione governare la rete di ricerca sanitaria riservando i giusti ruoli a chi ne fa parte.

Ad esempio le istituzioni di ricerca sanitarie pubbliche e private, come gli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico, che hanno una natura monospecialistica e sono distribuite in modo disomogeneo nel paese e non possono quindi avere la necessaria visione di insieme e assolvere alla funzione di orientamento nazionale. L’attuale ministro della salute, Roberto Speranza, sembra avere a cuore sia una governance sanitaria basata sull’evidenza scientifica di efficacia più che su criteri di efficienza, sia il potenziamento della medicina territoriale.

Inoltre, ha messo in evidenza chiaramente, dall’inizio del suo dicastero, che per raggiungere questi obiettivi è necessario aumentare le risorse per il patto della salute. Al ministro e alla politica chiediamo quindi di considerare una priorità il sostegno all’Iss e non nella forma di finanziamento straordinario e temporaneo stabilito dal Decreto ‘Cura Italia’, ma attraverso un finanziamento ordinario che per lo meno ristrutturi il suo bilancio per i tagli subiti negli ultimi dieci anni, e un programma straordinario di assunzioni che permetta il reclutamento di giovani ricercatori interessati alla ricerca biomedica e ai temi di salute pubblica.

Il nostro sistema sanitario di natura universalistica ha bisogno, per raggiungere i suoi obiettivi di efficacia e di equità, di un’istituzione di ricerca terza che svolga il suo compito a livello nazionale. Per questo riteniamo che nei prossimi mesi sia dirimente un provvedimento che garantisca al paese che questa funzione sia sostenuta con tutti i mezzi necessari per affrontare la difesa della salute dei cittadini in questo momento di emergenza ma anche per tutte le emergenze future, ovvero permettendogli di costruire la rete di salute pubblica necessaria per il Paese.

Per fortuna in Italia questa istituzione esiste dagli anni Venti del ’900 dimostrando al paese un’alta qualificazione per promuovere e difendere la salute pubblica, basta averne cura e renderla una priorità di investimento. Chissà se il prossimo editoriale del professor Panebianco vorrà tenerne conto.


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