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Oggetto o soggetto propulsivo di riforma? Considerazioni sparse in attesa del Piano Scuola del governo

di Antonio Valentino

02/09/2014
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ScuolaOggi

Alcune considerazioni preliminari per darsi bussole sensate dentro l’operazione riformatrice lanciat dal governo. Perché se è giusto e doveroso, oggi come oggi, “sporcarsi le mani” con la melmosità delle questioni aperte, bisogna pur recuperare ragionamenti e idee – abbondantemente frequentati in questi anni -  che permettano di affrontare al meglio e chiuderle bene, tali questioni. 

Idee come punti fermi - e comunque di attenzione -; e idee come “visione” .

Da intendere, quest’ultima,  come prefigurazione di traguardi - di cui si colgano contorni e elementi basilari e strategici. 

Senza punti di partenza solidi e credibili, la “visione” difficilmente potrà avere i giusti contorni e, quindi, l’efficacia  richiesta.  E, d’altra parte, senza visione è difficile individuare le direzioni più appropriate ai possibili percorsi. Almeno  questo sembrano suggerire  esperienza e buon senso.

 

Per un’idea esigente e responsabile del lavoro a scuola

L'idea centrale di una riflessione sui punti fermi è che nessun piano di miglioramento della nostra scuola (qual è quello che verrà presentato prossimamente) può prescindere dal ri-considerare la collocazione dell'insegnante e del dirigente scolastico dentro un sistema che si vuole rimettere in moto. Né da una preliminare riconsiderazione della  principale ragione sociale del fare scuola.

Oggi la considerazione sociale del lavoro docenteè, da noi, in tutta evidenza, piuttosto modesta. Forse, in pochi altri stati a democrazia avanzata (diciamo così), ha livelli di sottovalutazione come nel nostro paese. Ma anche livelli di contraddizione così marcati.

Almeno questa è la percezione più diffusa. Certamente le responsabilità non sono solo esterne al pianeta scuola. Ma questo è un altro discorso.

Ci troviamo di fronte al classico caso del cane che si morde la coda: prevale un'idea poco esigentedel lavoro docente – spesso da parte degli stessi addetti - che porta a risultati che, nella considerazione sociale, vengono valutati al di sotto delle attese. E questa scarsa considerazione sociale influenza scelte politiche contraddittorie e miopi. Che a loro volta influenzano negativamente i comportamenti della categoria.

Recuperare il disegno costituzionale

Perciò il principale interrogativo di partenza sembra essere il seguente: quanto è condivisa l’idea che il lavoro dell’insegnante - e del ds - si colloca dentro un progetto di portata costituzionale, che è interesse dell’intera collettività nazionale - e in primo luogo della classe dirigente di questo paese - difendere e  di cui garantire la realizzabilità? Certo, parliamo dell’insegnante come professionista responsabile, per così dire, di suo (dei processi che mette in campo e dei risultati che ottiene) e responsabile in quanto parte di un team e di una istituzione pubblica autonoma. Comunque, figura di una istituzione fondamentale della Repubblica e della sua Costituzione (quindi,  non “commesso del governo in carica”. Ovvio).

Si tratta, in altri termini, di capire se si intende guardare alla scuola come all’ufficio delle poste o del catasto (con tutto il rispetto, ci mancherebbe) oppure come ad un istituzione attraverso la quale si passino strumenti e si sviluppino competenze importanti per migliorare la partecipazione democratica del paese, si assicurino al viver civile più elevati livelli di convivenza, si renda possibile  uno sviluppo economico e sociale che migliori la qualità della vita.

È questo, d’altra parte , che si continua a dire per i più diversi motivi e ai più diversi livelli. E così frequetemente, senza che succeda nulla, che c’è motivo di credere che se ne parla ma che non ci si pensa.

Anzi si pensa male, se da almeno 30 anni, con pochissimi periodi che fanno eccezione, le politiche sono state tali da portarci alla situazione disastrata di oggi.

Tanto che uno si chiede come sia potutto accadere  – citando  a caso - che si creasse un precariato così pesante che continua a segnare molto negativamente la vita delle scuole e di chi lo subisce, che si sfornassero a go go, riforme senza misure e senza adeguato pensiero strategico, che si consentisse un degrado così umilante degli edifici scolastici, che si permettessero tassi intollerabili di abbandono, che i livelli modesti dei risultati scolastici (evidenziati da rilevazioni internazionali e nazionali), e i tagli insensati e miopi al personale e alle risorse finanziarie non abbiano scatenato  sdegno generalizzato. Come è potuto accadere - ci si chiede ancora - che si depotenziasse il valore di innovazioni organizzative e didattiche come le funzioni obiettivo, che si tollerasse la bagarre sul recupero dei 10 minuti sottratti all’ora canonica di lezione, che la lezione frontale rappresenti la modalità più diffusa di fare scuola e la valutazione sia condizionata ancora da impressionismo diffuso, quando non sia vista come strumento di potere.  O, ancora, che il tema cruciale delle Competenze chiave di cittadinanza (Decreto Fioroni del 2007 che in gran parte riproducce le otto competenze del Consiglio dell’Unione europea del 2006), ha difficoltà a ispirare pratiche didattiche e formative adeguate.

Come è potuto succedere, detto riassuntivamente, che le ragioni sociali del fare scuola si siano (non ovunque, per fortuna) per così dire offuscate a tal punto da perdere senso e valore propulsivo e si siano perse per strada.

Standard impegnativi e chiara articolazione delle aspettativeMa anche formazione e sostegno.

Le ragioni sono ovviamente molte (e varie – e ovviamente diversificate – le responsabilità: comunque nessuno dei soggetti coinvolti può tirarsi fuori). E non è questo lo spazio per riprenderlo. Qui si vuole solo richiamare, tra le ragioni possibili, soprattutto il dato difficilmente confutabile che, a fronte della crescente complessità dei compiti della scuola, è venuta a mancare la necessaria chiarezza rispetto alle attese di risultati e prestazioni. Che rinvia evidentemente alla mancanze  di strategie adeguate.

È venuta a mancare, detta in altri termini, l’indicazione concreta e credibile – da parte di chi ha avuto responsabilità di governo - dell’obiettivo, del traguardo, e delle modalità e degli strumenti per riconoscerli e valutarli. Ingredienti normali, ovvii in una qualsiasi organizzazione che si rispetti e che nella scuola sono affidati invece alla sola disponibilità e sensibilità personale di tanti Patriot (il riferimento è al celebre film di Mel Gibson) che hanno impedito la catastrofe che ha segnato invece altri settori della vita pubblica del nostro paese.

Però è mancata anche da parte del mondo della scuola e delle sue rappresentanze sindacali e associativo-professionali l’esatta percezione  della posta in gioco e quindi una riflessione sui compiti da assumere come prioritari, su quali attese concrete  era opportuno che ci si concentrasse e di cui rispondere. E ciò, sia  nelle pratiche organizzative e didattiche che nei comportamenti professionali.

Si è finito pertanto con l’assecondare il “principio”, che ha sempre governato le nostre classi dirigenti: che poco si dà a chi poco si chiede.

Principio entrato in crisi quando la scuola è stata chiamata a responsabilità più pesanti e quando sul fare scuola si sono concentrate attese di ogni tipo da parte della società in generale. Ma che ha tuttavia continuato ad ispirare fino ad oggi  le politiche governative.  

I costi sociali del disimpegno sulle questioni scolastiche. Troppo elevati da sostenere

I risultati comunque sono sotto i nostri occhi. Nonostante i Patriot. Non si parte certo da zero e non poche sono le scuole in cui si lavora bene e con esiti apprezzabili (e da cui trarre stimoli per ripartire).

È però innegabile che è il sistema nell’insieme che appare opaco, privo di attenzioni condivise, di progettualità diffuse e operatività conseguente. Con i risultati complessivi che ben conosciamo. E non solo sotto il profilo specificamente scolastico. Basta guardarci attorno. Il gap sotto il profilo socio-economico rispetto agli altri paesi industrializzati non è forse anche il risultato di politiche scolastiche che, a partire dalla fine degli anni ’80 (e forse anche prima), hanno perso via via tutti i treni che bisognava prendere per affrontare adeguatamente la scolarizzazione di massa, lo svecchiamento dei saperi e dei metodi, le nuove forme di selezione, formazione  e cura del personale? Ma anche  per rinnovare i nostri laboratori, rendere decorose le nostre scuole e ripensare radicalmente l’organizzazione del lavoro?

Ma lo stesso appannarsi dell’ etica pubblica, a ben leggere i tanti indicatori che ci forniscono le pur diverse ricerche sociologiche, va fatto rientrare nella gestione di basso profilo della nostra scuola, soprattutto in questa fase di inizio millennio.

Le generalizzazioni spesso semplificano quadri di insieme, che sono senz’altro più variegati e complessi.

Ma non si può non pensare comunque che la modestia preoccupante e diffusa dei risultati   e talora il degrado di non poche realtà scolastiche siano tra i fattori non secondari del non esaltante stato di salute della democrazia e del viver civile nel nostro paese; a un tempo causa e conseguenza.

 

Non oggetto di riforma, ma soggetto attivo e propositivo

Si diceva della necessità di recuperare, da parte del mondo della scuola e delle sue rappresentanze sindacali e associativo-professionali, l’esatta percezione  - finora in buona parte mancata (e chi può chiamarsi fuori?) - della posta in gioco; e quindi una riflessione sui suoi compiti più urgenti e strategici.

Qui declinerei “mondo della scuola” soprattutto nei termini di associazioni professionali, OOSS, scuole (e reti associative) più sensibili a questa questione.

Una eventualità che oggi si presenta, per il mondo della scuola,   come rischio possibile - vista la situazione impantanata -, mi sembra la seguente: essere oggetto di riforma e non, invece, soggetto protagonista e responsabile.

Come evitare questo rischio? Vedo solo due strade, in parte convergenti: che l’Amministrazione (le scelte e le pratiche ministeriali) smetta i panni del “padrone”  e  le OOSS, le associazioni profesionali, le reti di scuola, …. diventino luoghi / leve  per costruire un protagonismo che si basi, come già richiamavo,  su una idea esigente e responsabile della funzione docente;  verso se stessa, ma  anche verso l’Amministrazione e la politica.

La prima dovrebbe essere un punto fermo per un ministero che voglia darsi gambe valide per la sua azione riformatrice. La seconda via è, per il mondo della scuola,  sfida di cui essere oggi consapevoli e per la quale organizzarsi: le associazioni come communities professionali  per affinare visioni (di profili, organizzazione, compiti) e avere forza e peso per fare la sua parte propulsiva e, nel caso, propositivamente antagonista; le OOSS come soggetto ripensato in un’ottica che guarda alla scuola come bene comune dell’intero mondo del lavoro (recupero, cioè, senza se e senza ma, come si diceva una volta, della spinta confederale); le reti di scuole come spazi e strumenti di confronto e condivisione, di sviluppo professionale e di governo partecipato  delle politiche formative del territorio.

Sul “come”, si sono già dette molte cose. Occorre solo riprenderle e non partire continuamente da zero.

Se non succede, il rischio è che non se ne esca o se ne esca con riforme che non riformino.

Cosa succede altrove?

Con riferimento alle considerazioni svolte, si riportano di seguito - in termini schematici-  i risultati di una Ricerca internazionale sui sistemi formativi, condotta per conto dell’Editore Pearson e dell’ Economist Intelligence Unit e pubblicata in nel novembre del 2012[1].

La ragione di questo richiamo è che nel Rapporto di tale ricerca documentaria - finalizzata all’analisi delle politiche dei Paesi che più investono sulla scuola e che occupano i primi posti nelle classifiche internazionali per quanto riguarda funzionamento e qualità dei sistemi formativi - non pochi aspetti e indicazioni paiono confermare alcune direzioni di lavoro cui si è qui accennato.

Questi, in forma tabellare, i punti rilevanti di uno specifico capitolo, dal titolo significativo: Getting teachears who make a difference. (V. tavola seguente)

Per ottenere insegnanti che fanno la differenza

Le scelte

Strategie / Fattori di successo

Attrarre alla professione le persone migliori.

-         Cominciare dal reclutamento: Reclutare ‘persone di talento’ è la prima mossa (Finlandia e Corea del Sud, i due Paesi in testa alla classifica dei migliori sistemi formativi, attingono per il loro fabbisogno annuale  in misura, rispettivamente, del 10% e del 5% dal top dei laureati)

-         La chiave di successo: la considerazione  di cui gode l’insegnamento in questi stati

-         Garantire autonomia di decisione vs mera  esecutività  di disposizioni e di provvedimenti impartiti dall’alto (insegnanti professionisti).

Garantire una giusta formazione

-         La cura dell’ autoformazione durante l’intera vita professionale e percorsi appetibili per l’avanzamento di carriera

-         Continuo sviluppo della formazione.

Definire traguardi chiari e effettuare supervisioni reali sul lavoro degli insegnanti; e  lasciare che vadano avanti

-         Consapevolezza della forte relazione tra risorse e miglioramento dei risultati

-         Standard impegnativi, bassa tolleranza degli insuccessi  e chiara articolazione delle aspettative, combinati con una forte responsabilità professionale.

-         Organizzazione centrata sul lavoro collaborativo, per docenti e scuole

-         Combinazione di rendicontazione (accountability ) e di autonomia, correlate ai miglioramenti ottenuti.

“Nessuno però dei precedenti fattori  - si dice a ragione nella conclusione del Rapporto -,  preso a sé stante, è sufficiente. Al contrario essi si sovrappongono e si supportano a vicenda e vanno considerati come un insieme coordinato di strategie  da mettere a disposizione degli insegnanti  e da utilizzare nei modi più efficaci”.

Come si vede, idee ed esperienze a cui rifarsi ce n’è. E comunque non solo altrove.

 

[1] V. A. Valentino, Gli insegnanti nell’organizzazione della scuola, Edizioni Conoscenza, Roma 2013, pp. 14-16