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Non sono solo numeri quelli seduti ai banchi

Maria Pia Veladiano

25/06/2014
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la Repubblica

CI vuole un bel coraggio a dar principio alla marcia contro il voto. Oggi tutti sono soprattutto giudici di ogni cosa e sono piuttosto infallibili e a tutti si danno pagelle, agli scrittori, ai Papi e anche ai professori. Ma la scuola senza voti non è cosa nuova e bizzarra. Ricordare che a Barbiana i voti non c’erano è banale solo se nella tranquillizzante schizofrenia che ci permette di pensare quell’esperienza come esemplare e nello
stesso tempo improponibile.
Nessuna esperienza pedagogica è riproducibile così come è stata, ma se una ha ben funzionato, e là i ragazzi imparavano egregiamente a leggere, a scrivere, la matematica, le lingue, e anche a vivere, è il caso di non farne un santino e guardarci dentro davvero per capire. Anche la scuola steineriana è senza i voti, che sono considerati lo strumento di un pericoloso ricatto pedagogico, o comunque un incentivo a essere competitivi e non creativi. E, più in grande, la mitizzata scuola finlandese, in cima alle indagini Ocse-Pisa sugli apprendimenti, non prevede voti per tutto il tempo della formazione di base. E ancora, qui in Italia la scuola del Trentino, a sua volta eccellente nei risultati, valuta (sufficiente, buono, distinto...) per aree di apprendimento fino alla quarta elementare, e comunque niente voti fino alla terza media e poi non si va sotto il quattro nelle pagelle delle superiori.
Il voto sembra la scelta più semplice. Un giudizio articolato può non dir nulla per dieci righe, il voto invece ha una sua apparente seduttiva trasparenza. Tutti capiscono che cinque non va bene e tre è un disastro. Ma non è così. Che il disastro non riguarda mai la persona dello studente ma solo una
disciplina, e nemmeno tutta ma solo un aspetto, ad esempio l’ortografia e non la fantasia, o il calcolo e non la logica, questo il voto non lo può dire. E nemmeno dice che può diventare il residuale strumento di potere di docenti stretti all’angolo, talvolta da una loro incapacità (a volte, bisogna dirlo, non a tutti dovrebbe essere permesso fare l’insegnante). Ma spesso anche dall’arroganza di studenti e famiglie che pretendono i risultati a scuola come dalla propria squadra di calcio. Se perde la partita la colpa è sempre dell’arbitro venduto e dell’allenatore impedito. Il voto non è la valutazione, lo sappiamo. Senza voti si può fare scuola e può essere anche pedagogicamente vincente questo andare controvento rispetto a una società che tende a mettere in numero tutto, e invece la scuola è soprattutto pazienza e sapienza di tempi di crescita diversi, e il riconoscimento di modi liberi di diventare quel che si desidera e si può diventare. È non lasciare nulla di intentato. Proprio le esperienze che hanno già una loro storia ci consegnano una serie di attenzioni, che sono forse vere e proprie condizioni: centralità del rapporto studente-docente, don Milani è uno, ma se non c’è passione educativa non si può, e poi formazione degli insegnanti, che vivono nello stesso mondo dei loro studenti e non possono passare la loro vita in aula a inseguirlo arrancando dietro conoscenze (non solo digitali) che i ragazzi maneggiano dalla materna. Non mancheranno a nessuno le surreali proteste di genitori arrabbiati per un nove al posto di un dieci, in un’unica materia, in seconda elementare.


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