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Non siamo un paese per giovani In povertà 1,2 milioni di minori

Welfare e scuola non aiutano più

28/10/2019
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La Stampa

Gabriele De Stefani
Anno 1969: un bambino guarda il nonno e immagina una vita migliore della sua perché ha il 70% di probabilità di diventare più ricco: basta l'inerzia a far crescere il benessere. Anno 2019: la prospettiva è drammaticamente ribaltata, il bambino del 1969 è diventato nonno e oggi il rischio di finire in povertà è cinque volte più alto per il suo nipotino che per lui.
È la diseguaglianza più profonda che attraversa l'Italia: un milione 260 mila minorenni vivono in stato di povertà assoluta e 500 mila non hanno i soldi sufficienti a mettere regolarmente proteine nel piatto. E nello stesso decennio (2008-2018) in cui il numero di under 18 indigenti è triplicato, non è aumentata per contro la quota di over 65 poveri: più si è giovani più è alto il dazio che si paga alla crisi. Così oggi in Italia un povero su due ha meno di 34 anni. La povertà non è solo nel portafogli, ma è anche educativa e culturale. Con la spesa per l'istruzione al suo minimo storico (3,5% del Pil) e la preparazione degli studenti sotto la media europea, oggi la scuola non è più uno strumento capace di sconfiggere le diseguaglianze. Il circolo, insomma, è vizioso.
L'identikit e i servizi
Non esiste un identikit nitido del minore a rischio indigenza, perché il fenomeno, benché più acuto al Sud e tra i figli di stranieri, attraversa tutto il Paese. Vivono in povertà assoluta un under 18 su sei al Sud, uno su nove al Nord e uno su dieci al Centro. Ma i dati dell'Istat e dell'Atlante dell'infanzia a rischio di Save The Children dicono che il problema è strutturale e in buona misura passa sopra le differenze socio-economiche che separano le regioni più ricche dal Mezzogiorno. «Purtroppo il rischio di povertà ed esclusione sociale dei minori in Italia è arrivato al 30% ed è tra i più alti d'Europa, peggio fanno solo Bulgaria, Grecia e Romania - spiega Antonella Inverno, responsabile delle politiche per l'infanzia di Save The Children -. Paghiamo le difficoltà del sistema di istruzione e un welfare in cui le famiglie con figli sono le meno tutelate. Fare un bambino impoverisce». Del resto la spesa pubblica italiana per la prima infanzia è tornata ai livelli del 2008 e il risultato è che solo un bimbo su quattro va al nido. Il tema degli asili, entrato nell'agenda del governo con il Family act promosso dalla ministra Elena Bonetti, non ha solo le ripercussioni economiche che le famiglie misurano nel portafogli, ma anche conseguenze formative, perché le differenze socio-culturali si stratificano molto presto e poi rischiano di rimanere addosso per tutta la vita. «Gli studi dimostrano che già all'età di tre anni e mezzo le diseguaglianze si cristallizzano - analizza ancora Inverno - per cui il gap economico si scarica subito su una dimensione ben più ampia, che attiene alla persona. Per questo vanno bene i bonus per bebè e asilo, ma servono soprattutto politiche di welfare egualizzanti per tutto ciò che riguarda la prima infanzia. A partire dalle strutture: per esempio sarebbe strategico un piano di ampliamento dell'offerta dei posti nei nidi, oltre ad aiutare le famiglie a pagarlo».
L'effetto San Matteo
La gestione dei servizi per la prima infanzia finisce spesso per accentuare anziché ridurre le diseguaglianze. Basti pensare ai criteri con cui si formano le graduatorie per l'ammissione agli asili, nelle quali viene data una corsia preferenziale alle famiglie in cui entrambi i genitori lavorano. Ad un primo sguardo sembra semplice buonsenso: se la mamma o il papà sono a casa, possono occuparsi del figlio lasciando spazio a scuola ai bimbi con entrambi i genitori impegnati. Nella pratica, però, si ottiene un effetto distorto: probabilmente la giovane mamma non è a casa per scelta ma perché disoccupata o sottopagata e il bambino, che parte già da una posizione di svantaggio rispetto a chi cresce in famiglie più ricche, ha ancor più bisogno di andare a scuola presto. Così il sistema di welfare finisce per alimentare anziché ridurre la diseguaglianza.
È quello che in sociologia viene definito l'effetto San Matteo. Se gli aiuti sono ridotti e i criteri di distribuzione infelici, si finisce per favorire chi già parte più avanti: «A chiunque ha, sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha» (Vangelo secondo Matteo, capitolo 25, versetto 29).
A monte del processo educativo, naturalmente, lo scarso sostegno e le difficoltà economiche allargano la ferita della denatalità: in dieci anni le nascite sono crollate del 23,7%, passando da 576 mila a 432 mila. La discesa è attenuata dal robusto contributo (il 15% del totale) dei neonati da genitori stranieri. I quali, per altro, italiani di domani, sono i più esposti al rischio povertà e devono fronteggiare anche barriere linguistico-culturali e sul fronte dei diritti civili, essendo privi di cittadinanza.
L'antidoto che non funziona
La spesa pubblica per l'istruzione è al minimo storico: 3,5% del Pil. Il confronto con le pensioni (20%) dice che per ogni euro investito nella scuola ce ne sono quasi sei destinati alla previdenza. È uno dei dati che fotografano meglio la grande peculiarità italiana sul fronte delle diseguaglianze: «Siamo il Paese in cui si è allargata di più la forbice tra il benessere dei giovani e quello degli adulti o anziani – analizza Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli –. In Italia le diseguaglianze tra le varie fasce di reddito si sono accentuate meno che altrove, il cuore del problema è nel gap intergenerazionale».
Nel dopoguerra la scuola fu uno straordinario veicolo di crescita ed eguaglianza. Oggi è disarmata davanti alle sfide formative e alla necessità di cambiare pelle imposte da globalizzazione e nuove tecnologie: «Numerosi indicatori dicono che abbiamo alte percentuali di studenti che magari arrivano al diploma, ma hanno competenze inferiori ai livelli considerati minimi dagli standard internazionali. Attenzione: quando dico "minimi" non mi riferisco a parametri strettamente scolastici o economici, ma a livelli necessari per essere buoni cittadini» avverte Gavosto.
Le cause sono molteplici, ma pesa soprattutto il progressivo calo degli investimenti nell'istruzione: «Da 25 anni la produttività è ferma, l'economia non cresce e così mancano le risorse».
Su un binario parallelo, si riaffaccia anche il problema dell'abbandono scolastico: dopo anni di calo, tra il 2016 e il 2018 sono tornati ad aumentare i ragazzi che hanno lasciato gli studi prima del dovuto (dal 13, 8 al 14, 5%).
La partita da giocare
Incrociando dati e analisi, il rischio è chiaro: il circolo è vizioso perché diseguaglianze economiche ed educative si rafforzano a vicenda. E lo fanno con un'intensità moltiplicata dalla rivoluzione tecnologica che dal digitale porta all'intelligenza artificiale, al machine learning e alla lotta al cambiamento climatico: «Certo, nel dopoguerra per il riscatto potevano bastare spirito imprenditoriale, creatività e un generico "saper fare". Qualcosa di simile è accaduto al miliardo di persone uscite dalla povertà negli ultimi 40 anni in India e Cina, trascinate di fatto dalla crescita economica. Ma oggi la competitività non può prescindere dalla formazione – spiega ancora Gavosto – e dunque abbiamo la necessità che i ragazzi acquisiscano a scuola competenze ben più elevate».
Come se ne esce? «Serve tornare a investire nell'educazione, e parecchio. Tra livelli di istruzione e crescita economica c'è un fortissimo legame: senza formazione non c'è sviluppo e viceversa. Non bisogna pensare a cosa fare nel breve, per ripartire ci vogliono grandi piani che guardino da qui a dieci o venti anni».


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