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Noémi e l’appello dei «prof» rimossi: non ci arrenderemo ma chiediamo aiuto

I professori universitari sono sotto attacco in Turchia. Quasi 5mila di loro hanno perso il lavoro dopo il fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016. Alcuni hanno deciso di non abbandonare i loro studenti e di insegnare fuori dalle università. Senza stipendio, però, la sopravvivenza è difficile

28/03/2017
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Corriere della sera

Monica Ricci Sargentini

I professori universitari sono sotto attacco in Turchia. Quasi 5mila di loro hanno perso il lavoro dopo il fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016. Alcuni hanno deciso di non abbandonare i loro studenti e di insegnare fuori dalle università. Senza stipendio, però, la sopravvivenza è difficile. Per questo alcuni atenei in Canada e negli Stati Uniti hanno lanciato una raccolta fondi.

La situazione è talmente grave che il principale partito di opposizione ha messo a punto un rapporto dal titolo «Professori licenziati, università deserte» in cui si denuncia, tra l’altro, la chiusura di 15 atenei su 191. Il leader del Chp, Kemal Kılıçdaroglu, ha accusato il partito al governo, l’Akp, di punire i docenti che dissentono. Come quei 2.212 professori che l’11 gennaio 2016 hanno firmato la Petizione degli accademici per la pace dal titolo «Non saremo parte di questo crimine!» in cui si chiedeva la fine delle operazioni dell’esercito turco nel sud est del Paese, a maggioranza curda. Più di 300 sono stati licenziati.

Tra questi è diventato un caso quello della storica francese Noémi Lévy-Aksu, 36 anni, in Turchia dal 2003 e docente a tempo pieno alla Bogaziçi University dal 2010 dove insegna Storia della Turchia moderna. Lo scorso 22 febbraio il Consiglio per l’educazione superiore(Yok) le ha revocato il permesso di lavoro e di residenza mettendo così fine al contratto che le era stato rinnovato dall’ateneo nel dicembre 2016. «Quando mi è stata comunicata la decisione — racconta al Corriere — ero a Londra, alla scuola di legge del Birkbeck College dove sono in sabbatico per scrivere un libro sull’uso dello stato d’emergenza nel tardo Impero Ottomano. Ma mi sono precipitata a Istanbul per protestare e ho ricevuto la solidarietà di tanti colleghi e soprattutto degli studenti».

Ironicamente Noémi Lévy-Aksu, che è sposata con un avvocato turco e ha una figlia di 5 anni, il 6 marzo aveva sostenuto con successo ad Ankara l’esame per diventare professore associato: «Mi servirà in futuro. Non ho alcuna intenzione di lasciare la Turchia. Qui c’è la mia vita. Penso che questa tragica situazione non continuerà per sempre, anche se ci vorrà tempo per risolverla. Molti accademici continuano a scrivere. I miei studenti hanno fatto un presidio per chiedere la mia riassunzione. Non ci possono silenziare». Il presidente Erdogan, però, la pensa diversamente e, come ha detto più volte, il manifesto degli accademici «mina l’unità del Paese».

Nei giorni scorsi Lévy-Aksu ha diffuso un messaggio-appello che ha fatto il giro del mondo universitario internazionale in cui spiega di non volere un intervento diplomatico delle autorità francesi: «Visti i silenzi e la timidezza della Francia e dell’Europa su quanto sta accadendo nelle regioni curde mi sembrerebbe indecente che la diplomazia si mobilitasse per il mio caso personale. E poi io non mi considero una straniera, come molti di voi sanno ho chiesto la cittadinanza turca». Non chiede sconti Noémi: «Voglio condividere lo stesso destino dei miei colleghi». Ma vuole solidarietà dal mondo accademico: «Mandateci dei soldi perché non bastano più. Accogliete i professori licenziati e i dottorandi perseguitati e tagliate i ponti con lo Yok di Ankara, all’origine del mio siluramento. Io gli ho fatto causa e la vincerò». Se si è pentita? «No, anzi, vado fiera di quella firma». La strada, però, è tutta in salita. La prossima settimana Noémi atterrerà ad Istanbul con un visto da turista.


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