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Marta, ricercatrice: «Aiuti a chi denuncia nepotismi in ateneo»

La fuga: sto in Francia, dove non si lavora gratis

25/09/2016
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Corriere della sera

«Nepotismo nelle università? Certo che c’è. Ma io a Cantone dico anche: vi sono arrivate così tante denunce? Bene, allora portatele alla magistratura e poi fate come si fa per i testimoni di mafia: proteggete chi denuncia, aiutate chi ha il coraggio di parlare e premiatelo, magari proprio con un contratto a tempo indeterminato». Perché invece, «alla fine quasi tutti a quel sistema si piegano e adeguano cercando di prendere le briciole che rimangono».

Marta Fana ha 31 anni. Studia all’ultimo anno di dottorato in Economia. Parla da Parigi dove all’Università Sciences Po ha scelto di continuare la sua carriera accademica dopo una laurea triennale in Economia all’Università di Tor Vergata di Roma e due master, uno a Tolosa, l’altro a Torino. È partita tanti anni fa da Gioiosa Marea, in provincia di Messina. E a Parigi ha intenzione di restare. Proprio perché conosce bene il mondo universitario italiano. Dà ragione al presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone che denuncia il «collegamento fra la fuga dei cervelli e la corruzione» negli atenei italiani con in cattedra figli e parenti dei prof. Però, aggiunge la dottoranda Marta, «la corruzione esiste ed è molto forte, ma le parole di Cantone rischiano di snaturare il vero problema, cioè la mancanza di fondi per la ricerca: in Italia ci sono sempre meno soldi che significa troppe poche borse da finanziare; le poche rimaste finiscono ai soliti noti e per gli altri non c’è più posto». Ci sarebbe in realtà una legge che vieterebbe l’assegnazione di borse e posti ai parenti di docenti che insegnano nello stesso ateneo, ma «quel divieto viene facilmente aggirato, eludere la regola — dice Marta — è un gioco da ragazzi».

E così ragazze in gamba come la dottoranda siciliana (ha frequentato i due master dopo aver vinto le borse di studio messe in palio da fondazioni bancarie) in Italia neanche ci provano e preferiscono andarsene all’estero, «sono venuta via prima e so di aver fatto la scelta giusta». Fa due conti. Con il suo contratto da ricercatrice mediamente ogni mese porta a casa circa 1.400-1.500 euro, cui vanno aggiunti i 65 euro per ogni lezione tenuta all’università, oltre ai compiti corretti agli esami (circa 9 euro a copia).

«Ecco — dice — in Italia un ricercatore guadagna circa mille euro al mese: e quasi tutto quello che fa all’università non viene retribuito, lezioni, esami, seminari, tutto gratis o al massimo qualche fondo a forfait, c’è una situazione che non è paragonabile al resto d’Europa».

Solo che gli studenti universitari italiani, sottolinea Marta, «se ne stanno accorgendo e la cosiddetta “fuga dei cervelli” si sta anticipando e comincia ormai già dalla triennale: i ragazzi capiscono che senza fondi e investimenti l’ambiente universitario ci perde da tutti i punti di vista». Si riducono i momenti di scambio con i mondi accademici del resto d’Europa, ad esempio: «Io giro moltissimo per conferenze, ma me lo posso permettere grazie al mio stipendio e alla mia università». Invece, «un ambiente chiuso come quello italiano non attrae né investimenti né attenzione a livello internazionale e alla fine rischia di implodere». Oltre a perdere di competitività: gli atenei d’Italia continuano a scendere nelle classifiche internazionali e così diventa più difficile anche ottenere fondi europei (che ci sono).

Marta tornerebbe in Italia, «ma solo con una retribuzione superiore e con un ambiente più aperto e internazionale». Nel frattempo continua a sentire i suoi colleghi: «A loro dico sempre che li stimo moltissimo, perché io non criminalizzo l’università italiana però lì è tutto molto più difficile».

cvoltattorni@corriere.it


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