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Manifesto: L'appello sospetto alla Legge

Il morire fra pretese del diritto, vuoto di politica e di cultura politica, sovranità degli individui. Tutti i problemi che il caso Welby ci lascia di fronte, mentre il mutamento tecnologico impone un nuovo discorso pubblico sulla morte. Intervista a Stefano Rodotà

23/12/2006
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il manifesto

Ida Dominijanni
Con Stefano Rodotà, che ai problemi della «buona morte» ha dedicato larga parte del suo ultimo libro La vita, le regole (Feltrinelli) e che sul caso Welby è più volte intervenuto anche su queste pagine, tentiamo un bilancio di questa vicenda, al confine fra diritto, cultura, politica.
Con la morte di Welby, il caso è tutt'altro che chiuso. Quali problemi ci lascia di fronte?
In primo luogo il problema di una spaventosa e pericolosa regressione culturale, che si vede anche dall'uso delle parole. Nella discussione sul caso Welby sono state continuamente sovrapposte quattro situazioni e quattro nozioni diverse - accanimento terapeutico; rifiuto di cure; testamento biologico; eutanasia attivca o suicidio assistito - che già ricevono diversi trattamenti giuridici. In secondo luogo, c'è il problema della richiesta insistita di nuove norme, in una materia su cui il quadro normativo è già sufficiente e limpido, o richiederebbe sono aggiunte minime. Mai come in questo campo il diritto dev'essere sobrio, limitato e rispettoso dell'autonomia personale.
Perché allora questa pressante richiesta di una legge?
Per ignoranza o deliberato travisamento delle indicazioni ricavabili dalle norme già esistenti. O forse per un bisogno di rassicurazione. Oppure, ed è l'ipotesi che io temo, per mettere nelle mani della legge e dello stato una materia che dovrebbe nettamente restare appannaggio dell'autodeterminazione dei singoli soggetti. La richiesta di nuove leggi serve insomma per risolvere in termini di limitazioni e divieti quello che dovrebbe essere risolto in termini di libertà. Com'è già avvenuto per la procreazione assistita: l'allarme sul «far west» procreativo e sulla mancanza di norme è servito a produrre una legge restrittiva.
Dici che le norme che servono ci sono già. Ma il tribunale di Roma aveva respinto il ricorso di Welby sul suo diritto all'interruzione della cura con l'argomento che il diritto al rifiuto della cura c'è, ma mancano le condizioni per la sua attuazione concreta, in assenza di una legge specifica sull'accanimento terapeutico.
L'ordinanza del tribunale di Roma commetteva un doppio errore. Lamentava l'assenza di una legge specifica sull'accanimento terapeutico, ma in primo luogo nel caso di Welby non si trattava di accanimento terapeutico bensì di rifiuto delle cure, in secondo luogo non è vero che sull'accanimento terapeutico manchino le norme. Rifiuto di cure e accanimento terapeutico sono cose diverse e indipendenti l' una dall'altra: il paziente può rifiutare di essere curato, e la sua volontà dev'essere rispettata, anche in assenza di accanimento terapeutico. L'articolo 32 della Costituzione parla chiaro: la salute è un diritto fondamentale dell'individuo, non possono essere imposti trattamenti sanitari se non per legge, e una legge non può violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Dunque nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario; e la mancanza di una legge può rendere illeggittimo un trattamento, non la richiesta di interromperlo. Se poi Welby fosse stato anche oggetto di accanimento terapeutico, allora sarebbe scattato il codice di deontologia, che obbliga il medico a astenersi dall'ostinazione a «trattamenti da cui non possa fondatamente attendersi un beneficio per l'assistito e/o un miglioramento della qualità della vita», salvo essere sottoposto a procedimento disciplinare. Dunque l'accanimento terapeutico è inaccettabile, dal punto di vista etico e giuridico. Non c'è nessun vuoto normativo, la strada è ben tracciata dalle norme esistenti, che nitidamente lasciano la decisione sul morire all'autodeterminazione dei soggetti.
Parli giustamente di autodeterminazione e sovranità su di sé. Ma siamo sicuri di poter applicare la categoria dell'autodeterminazione e della sovranità a un individuo in stato di malattia terminale, al confine fra sopravvivenza e morte? Tu dici, e siamo d'accordo, che la sovranità statuale non può avocarsi il potere di decidere in una materia che è appannaggio della libertà dei singoli. Ma se anche si mette al servizio della sovranità dei singoli, il diritto non corre comunque il rischio di voler irreggimentare, razionalizzare, ordinare quel margine di non-sovranità, contingenza, caso, che resta ineliminabile nell'accadere della morte?
Vedo bene il paradosso. Qui però non stiamo discutendo tanto della morte, quanto del morire edella sofferenza. «Quant'è bella 'a morte 'e subito», dice un proverbio napoletano. Se uno ha la fortuna di morire repentinamente, tutte le sofferenze del morire gli sono risparmiate. Ma se il morire diventa un processo lungo e tormentato, e oggi può diventarlo sempre più in forza del mutamento tecnologico, bisogna vigilare contro l'espropriazione di sovranità del morente. Espropriazione che può venire sia dalla tecnologia sia da una norma autoritaria. Sul morire, il diritto non può svolgere altro che una funzione di accompagnamento, tanto più se il morente si trova nella condizione di non poter esercitare appieno la sua sovranità. Il testamento biologico serve proprio a retrodatare, per quanto è possibile, la decisione sul morire a un momento in cui si è ancora pienamente lucidi. Ma se questa lucidità non c'è, una norma di accompagnamento non può stabire nel dettaglio quando si stacca la spina o dove comincia esattamente l'accanimento terapeutico: deve lasciare margini di decisione alla contingenza, caso per caso. L'indecidibile del diritto, in questa materia, è cruciale.
Secondo te il medico che ha sospeso il trattamento di Welby dev'essere incriminato?
No. In una situazione di legittimo rifiuto della cura, a norma di Costituzione il medico deve limitarsi a registrare se la volontà manifestata dal paziente è davvero quella della sospensione. Se la procura di Roma seguirà i criteri che l'avevano portata a dichiarare legittima la richiesta di sospensione delle cure di Welby, non dovrebbe incriminare nessuno. Trovo poi assurdi i bizantinismi dell'ex presidente del comitato di bioetica, per cui il medico sarebbe nel giusto se prima ha staccato la spina e poi ha sedato il paziente, e sarebbe colpevole nel caso inverso.
In queste settimane è stato lamentato da più parti che nella nostra cultura non c'è più spazio per un discorso pubblico, collettivo, sulla morte. Secondo te è vero?
No, al contrario. Si sono spese molte pèarole retoriche sulla solitudine del morente, del tutto inappropriate al caso in questione. Welby stava a casa, sostenuto dal massimo degli affetti, con la moglie e la sorella accanto, e ha voluto fare della sua storia un caso pubblico. Non c'è solitudine del morente né privatizzazione della morte in questo caso: al contrario, esso ci ha immerso in quel Revival of Death, secondo il titolo di un recente libro americano, nel discorso pubblico, cui ci sospinge il mutamento medico e tecnologico.
Insomma c'è bisogno di elaborare un nuovo discorso pubblico sulla morte; altrimenti detto, la morte si politicizza. Ma la politicizzazione non deve voler dire necessariamente normativizzazione...
No, infatti. Che su questi temi ci sia bisogno di più politica, non vuol dire affatto checi sia bisogno di più legge. Lo stesso Napolitano, quando intervenne sulla prima lettera di Welby, non disse al parlamento di fare una legge, ma di discutere. La politica avrebbe moltissime cose da fare in questo campo, prima di una legge. Ad esempio, potrebbe porsi il problema di mettere i pazienti terminali in condizioni non tanto insostenibili da desiderare soltanto di morire. Prendiamo il caso delle cure palliative: da Roma in su ci sono 125 centri che le praticano (ma di recente il SAn RAffaele diMilano ha dovuto chiudere il reparto di terapia antidolore per insostenibilità dei costi), da Roma in giù ce ne sono in tutto 5. La politica dovrebbe occuparsi in primo luogo di questo: servizi, formazione, distribuzione sul territorio. Se invece prende la strada di una legge che restringa la possibilità di rifiutare la cura, prende la strada sbagliata. E questo rischio c'è: c'è il rischio, ad esempio, che una proposta di legge molto asciutta di Salvi, Vollone, Ignazio Marino passi ma «stralciando» dai trattamenti che si possono rifiutare la ventilazione cui era sottoposto Welby, o l'alimentazione forzata. C'è anche un altro rischio...
Quale?
Che nascondendosi dietro la necessità di legiferare, la politica consideri questa materia non sua, o la consideri secondaria: leggo con stupefazione sul «Riformista» (di ieri, ndr) che Prodi non la considera parte dell'agenda politica. Una prova lampante che Napolitano ha ragione, quando denuncia il distacco della politica dal vissuto dei cittadini.. E che quello che Piergiorgi Welby ci lascia in eredità è uno spaventoso vuoto di cultura politica, che non può essere colmato dall'uso improprio e improvvido di regole giuridiche.


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