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Manifesto/Firenze: voglia di comunità nella fabbrica della conoscenza

Un intervista con Guido Martinotti, lo studioso che ha presieduto alla fine degli anni Novanta la commissione voluta dal centrosinistra per riformare l'Università italiana.

27/04/2006
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il manifesto

GIGI ROGGIERO
L'invito a emulare il modello americano è un refrain ormai abituale per la politica italiana. Esso assume i connotati dell'idealtipo da seguire ciecamente nei sogni dei liberal bipartisan o del demoniaco spettro che tormenta gli incubi della sinistra italiana dai capelli (politicamente) grigi. Non poteva certo essere diversamente per l'università. Il sistema di istruzione superiore made in Usa è al contempo vagheggiato e avversato da buona parte del corpo accademico: pronti ad alzare le barricate in difesa dei privilegi baronali che verrebbero messi in discussone, altri docenti si ergono invece a paladini dell'università-azienda laddove questa fa rima con controllo della forza-lavoro e precarietà spinta. Per dirla in termini marxiani, nell'università italiana c'è una paradossale compresenza di sistema feudale e capitalismo postfordista.
Negli Stati uniti, invece, è dominante alla cosiddetta entrepreneurial university, o knowledge factory per usare l'espressone del sociologo Stanley Aronowitz: il capitalismo della conoscenza nella sua nuda forma. Proprio dalla comparazione dei due modelli prende le mosse l'intervista a Guido Martinotti, docente alla Bicocca di Milano, il cui nome è legato alla commissione che ha tracciato le linee generali della riforma Berlinguer. Nessuna pentimento rispetto al passato, ma un'autocritica sui criteri di attuazione della «sua» riforma sì.
E non poteva essere che New York (Martinotti lavora anche alla New York University) il miglior angolo prospettico attraverso cui cominciare l'analisi sull'università italiana e la messa a fuoco delle differenze con la realtà americana.
«Tra università statunitense e italiana c'è una diversità quasi morfologica - afferma Martinotti -. Il sistema americano, che, al contrario di quello italiano, è decentrato, viene percepito come quello dove è dominante l'università privata, ma non è così. È un modello dove il numero degli atenei privati è sicuramente maggiore che in quello italiano: ma è più pubblico che privato come studenti. Inoltre è regolato bottom-up invece che top-down, cioè dal basso verso l'altro. Gli enormi patrimoni delle università, soprattutto di quelle private, permettono una gestione manageriale-capitalistica con grandi investimenti e un enorme peso dei consigli di amministrazione. Noi invece abbiamo un tipico sistema di cooptazione, in cui decidono i professori. Il sistema americano è binario, basato sulla negoziazione: la faculty (il corpo docente) propone attraverso la mediazione del dean (preside), ma l'ultima parola è di chi tiene i cordoni della borsa. Da noi il reclutamento non è regolato dal mercato, è un sistema nazionale a code, molto irrigidito dai concorsi. Ciò non permette flessibilità e l'acquisizione di nuovi talenti.
Parlare di aziendalizzazione dell'università non significa però riferirsi solo agli atenei privati, quanto allo scardinamento della classica dialettica tra pubblico (inteso come statale) e privato. Negli Stati uniti anche le università statali vengono gestite con criteri interamente manageriali e imprenditoriali. Allo stesso modo è venuta ormai meno la dicotomia tra ricerca di base e applicata: la ricerca è da subito dentro un ciclo di produzione capitalistica...
È vero che negli Stati uniti non c'è mai stata una vera dicotomia tra privato e pubblico: sono uguali il reclutamento, le pratiche, le biblioteche, persino l'odore delle università. Il mercato dei professori è unico, le persone si muovono con grande agio perché c'è una tradizione accademica che li rende indistinguibili. In Italia invece c'è un tentativo di privatizzazione molto oscuro. A parte la Cattolica o la Bocconi, le altre sono finte università private: per molti docenti delle università pubbliche, l'incarico in un ateneo privato rappresenta un vero e proprio secondo lavoro.
Negli Stati uniti, grazie ai forti investimenti che riescono a calamitare, le università, sia pubbliche che private, sono diventate vere e proprie grandi imprese che hanno un'amministrazione managerialmente competente e un'accurata gestione dei bilanci.
Per tornare all'Italia, molti hanno nostalgia del tempo passato, ma se si vuole un'università per grandi numeri bisogna avere una struttura manageriale. In ogni caso, visto la legislazione italiana l'università non diventerà mai un'impresa. Per legge non può fare profitti, né può licenziare. Questo non significa che non debba rispondere a criteri di economicità ed efficienza, visto che i fondi destinati all'istruzione continuano a diminuire. Può quindi diventare un'intrapresa, giusta traduzione di enterprise university: un'istituzione che ha un management che risponde a criteri «comunitari».
Non le sembra però una contraddizione tentare di trovare o imporre criteri oggettivi di misurabilità (i crediti, ad esempio) a attività umane, come il sapere e la creatività, che per la loro natura non sono misurabili?
C'è bisogno di criteri di valutazione, per evitare sprechi e perché l'opacità serve non alla difesa della qualità ma del privilegio. È indubbio che le performance dei docenti non si possono misurare con grande precisione, indipendentemente dall'esistenza di una scientometria elabori tecniche di valutazione. In Inghilterra ai tempi della Thatcher il matematico Peter Swinnerton-Dyer ha costretto le università a entrare nei parametri decisi da un'equazione: è stato odiato, ma ha dato uno scossone a un sistema arroccato. Oltre ai parametri, ci vogliono team s per l'accreditamento. I miei colleghi che vogliono abolire il valore legale del titolo di studio non capiscono che negli Stati Uniti il titolo di studio è oculatamente valorizzato attraverso un complesso sistema di accreditation.
Tuttavia, se per la parte alta della docenza può trattarsi di una limitazione di privilegi, per studenti, ricercatori e docenti precari - che sono al contempo schiacciati dalla doppia dimensione baronale e aziendalistica - la misurazione significa invece un'imposizione e un controllo all'insegna dell'arbitrio, mentre il tempo dell'insegnamento e dell'apprendimento si contrae sempre di più.....
I crediti sono una forma non tanto di controllo, bensì un tentativo di misurare un'attività complessiva. Negli Usa, sono moneta corrente; come e quando accumularli lo decidi tu. In Italia, invece, sono stati introdotti in modo molto burocratico, trasformando il tempo in «moneta-crediti». Va detto che la commissione che ha elaborato le linee guida della cosiddetta riforma Berlinguer aveva insistito sul fatto che i corsi di laurea non si misurano a tempo, bensì a crediti.
Un'altra questione su cui si gioca la partita della riforma italiana dell'università e la ridefinizione della «mission» dell'università all'interno del mercato dell'istruzione, nella moltiplicazione delle agenzie formative e nella diffusione dei processi di produzione e trasmissione della conoscenza...
La nostra idea era di permettere un processo di adattamento relativamente spontaneo dei singoli atenei alle nuove esigenze formative. Innanzitutto, il sistema di istruzione pubblica è nato in condizioni in cui la diffusione del sapere era limitatissima. In secondo luogo, c'era un mondo del lavoro relativamente stabile. Terzo, il curriculum delle scuole e delle università era legato alla formazione di un'elite nazionale. Oggi è tutto capovolto. Le scuole agiscono in un sistema ricchissimo di informazioni. Gli zainetti pesano tanto perché la quantità di cose da studiare si è moltiplicata. Ciò si proietta su un riassetto complessivo del sapere, le discipline in senso tradizionale non esistono più. Che senso ha insegnare delle cose che si possono leggere meglio su Internet? Ci vuole una notevole flessibilità, ma per averla bisogna risolvere i problemi della forza-lavoro. Non lo si può fare con la rigidità di una volta, per cui i docenti sanno e fanno tutto, mentre gli altri sono bassa manovalanza, visto anche la produzione e la diffusione del sapere sono attività collettive.
La costruzione di un «nuovo» modello universitario è stata però accompagnata da un processo di dequalificazione formativa. Uno degli obiettivi dichiarati della riforma universitaria a cui è legato il suo nome era costruire un più stretto legame con il mercato del lavoro. Ma quanto la trasmissione di saperi a veloce obsolescenza permette di acquisire conoscenze complesse che permettano rapida riconversione e flessibilità?
La principale dequalificazione è la bonsaizzazione delle discipline. Un errore colossale: non è il tempo che conta, bensì la quantità e la qualità di sapere che bisogna trasmettere e acquisire. Se devo insegnare di tutto un po', il risultato diviene una pillola immangiabile. Ritengo che sia indispensabile una revisione seria dei curriculum, tenendo conto delle trasformazioni del sapere. L'università è un sistema articolato, ci sono vari ruoli che vanno retribuiti adeguatamene all'interno di un sistema che garantisce la stabilità e la continuità di chi ci lavora.
Negli Stati Uniti c'è la tenure track, chi fa bene verrà riconosciuto. Invece da noi si sta nel tubo e poi il trampolino di ingresso all'università. Ora la riforma voluta da Letizia Moratti ha peggiorato le cose. Anzi, ha consolidato il mio ruolo di barone, perché se mi danno la possibilità di fare contratti per ricercatori o docenti a tempo invece del concorso da ricercatore, decido io chi mettere in quel posto. Il mio potere all'interno dell'università è dunque aumentato.
La riforma Moratti ha indubbiamente rafforzato il potere baronale e peggiorato le forme di precarizzazione. Il processo ha però origini precedenti ed è intimamente legato all'università disegnata dalla riforma Berlinguer. Ad esempio, è indubbio che la «pillolizzazione» dei saperi e la frenetica «modularizzazione» richieda una forza-lavoro precaria. Non crede?
Il mio modello è diverso: maggiore autonomia delle università e flessibilità nella definizione dei ruoli. Ad esempio, è molto importante l'e-learning, o meglio il technology-enhanced learning, un modo di apprendere arricchito dalla disponibilità dei nuovi strumenti. Il rapporto con la conoscenza è più continuo e frammentario, lo zapping funziona pure qui. In secondo luogo, serve flessibilità nell'adattare la forza-lavoro a queste nuove condizioni facendo leva su contratti di lavoro diversificati. Infine, sindacalizzazione, cioè negoziazione collettiva di diritti e doveri.
Lei sta così delineando anche per l'Italia un quadro di governance dell'università, tema che negli Stati Uniti ha alle spalle una lunga tradizione...
Nel sistema americano ci sono sempre stati conflitti e e negoziazione tra i professori e il consiglio di amministrazione. In Italia non può più funzionare un sistema in cui i professori decidono tutto, deve esserci più negoziazione e contrattazione collettiva, e soprattutto una ragionevole flessibilità del lavoro, adattando la normativa a compiti che prima non c'erano.
Soffermiamoci sulle differenti posizioni degli attori della governance in Italia: Conferenza dei rettori (Crui), Consiglio universitario nazionale (Cun), ministero...
Il ministero dovrebbe avere grandi poteri strategici e nessun potere gestionale, altrimenti è la corruzione. Poi ci deve essere una rappresentanza del sistema universitario, non saprei se a elezione come il Cun o attraverso la Crui. Questa ha molto aumentato il suo ruolo, i rettori non devono essere più i signori che gestiscono l'università in maniera talvolta clientelare: servono grandi competenze per compiere scelte strategiche.
Dunque: maggiore negoziazione, ma anche partecipazione finanziaria degli studenti. Ora il sistema è socialmente iniquo: si fa finta che sia a basso costo, ma poi non ci sono i soldi per dare le borse di studio. Capisco che nessun partito voglia inimicarsi gli studenti che sono un milione e mezzo di voti, però è un grosso nodo che la sinistra non può non affrontare. Non è vero che con l'università gratis o quasi ci vanno anche i figli degli operai; al contrario, è vero che i figli degli operai che non vanno all'università pagano una quota-parte del costo dello studente.
Lei ritiene quindi necessario un innalzamento delle tasse universitarie?
Sì. Un'obiezione all'aumento delle tasse universitarie riguarda gli studenti meridionali che non riuscirebbero a pagarle. In questo caso può intervenire lo stato in funzione di sussidarietà. Se i nostri studenti pagassero il doppio potremmo restituire gran parte delle tasse pagate con borse di studio e al tempo stesso potremmo aumentare il numero dei docenti, delle aule, dei laboratori.
Secondo lei, rispetto al precedente esecutivo cosa cambierà il governo di centro-sinistra nelle politiche universitarie?
Temo che avrà poche risorse per fare grandi cambiamenti. Dobbiamo arginare la diminuzione dei fondi destinati all'università e alla ricerca stabilita dal decaduto governo di centro-destra. Un ulteriore contrazione dei finanziamenti che ha peggiorato una situazione che già non era rosea. Non ci sarà quindi spazio per ambiziosi progetti. Nel programma dell'Unione sono presenti tre punti per me importanti: difesa del sistema pubblico; maggiore autonomia, dunque maggiore responsabilità agli atenei e aumento della capacità produttiva dei docenti. Infine, controllo strategico del ministero sulle valutazioni. Bisogna quindi avviare un ragionamento serio sui meccanismi di governance dell'università.
Cambierà qualcosa rispetto alle condizioni del lavoro precario, a partire dalla legge Moratti?
La legge Moratti è una bomba a tempo. Tra 6 anni si dirà a 15-20.000 persone di andare a casa, oppure ci sarà un' ope legis. Io penso che questi contratti debbano avere una tenure track: se sei bravo alla fine il tuo posto c'è. I giovani sono necessari, tra qualche anno una parte rilevante dei docenti andrà in pensione e dobbiamo prepararci a riempire il buco che si aprirà.
Sulla base dell'attuazione della riforma in Italia e della «carta di Bologna», quali sono le sue valutazioni del documento della commissione che lei ha presieduto? Cambierebbe qualcosa oggi?
Ha funzionato una generale intuizione verso un'università più autonoma e flessibile. Tra l'altro, è stata la prima riforma che ha coinvolto il personale amministrativo. C'è stata un'adesione generale a questo modello, anche se poi tutti si sono lamentati. C'è l'idea importante del modello europeo comune, che viene perseguito a fatica in quanto le università sono sempre state molto localistiche: chi ha una cultura più adatta al cambiamento, come il sistema anglosassone o per certi versi quello francese, è stato più pronto. Altri - come noi e la Spagna - abbiamo avuto maggiori difficoltà.
Non ha funzionato il fatto che questo processo è stato innescato e controllato dalla defénse du corps, analizzata da Bourdieu negli anni '60 in merito alla resistenza dei professori alla legge francese dell'epoca. La bonsaizzazione è la defénse du corps.


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