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Ma i nidi non sono strumento di pari opportunità

Il decreto legislativo riconosce il nido come un servizio educativo e uno strumento di pari opportunità per tutti i bambini. Ma i finanziamenti aggiuntivi sono troppo bassi per superare le differenze di offerta tra Nord e Sud. E non ci sono criteri adeguati per fissare il contributo delle famiglie.

04/02/2017
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lavoce.info

Emanuele Pavolini e Chiara Saraceno

Disparità territoriale e costi per le famiglie

Lo “Schema di decreto legislativo recante istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni (380) (articolo 1, commi 180, 181, lettera e), e 182, della legge 13 luglio 2015, n. 107)” (trasmesso alla presidenza il 16 gennaio 2017) definisce chiaramente i nidi come servizi educativi integrati a tutti gli effetti alla scuola per l’infanzia, con l’obiettivo di “garantire ai bambini e alle bambine pari opportunità di educazione, istruzione, cura, relazione e gioco, superando disuguaglianze e barriere territoriali, economiche, etniche e culturali”.
Si conferma e – speriamo – si consolida un processo già ampiamente avviato, almeno nella maggioranza dei comuni delle regioni centro-settentrionali.
Perché raggiungere l’obiettivo occorre che si realizzino almeno due condizioni. La prima è il superamento della enorme disparità territoriale nei livelli di copertura – dal 26 per cento circa dell’Emilia-Romagna a meno del 2 per cento della Calabria – non compensati neppure dalla offerta privata, come mostra una recente indagine Istat. La stessa indagine mostra che se si considerano i posti in strutture pubbliche, convenzionate e private si arriva a un tasso di copertura pari a circa il 20 per cento: un dato molto lontano dal (modesto) obiettivo del 33 per cento che l’Unione europea si è data all’interno della “strategia Europa 2020”.
La seconda condizione è l’accessibilità economica del servizio, non sempre agevole per le famiglie di ceto medio a doppio lavoratore che non rientrano tra coloro che hanno una retta scontata (e non possono permettersi le rette dei nidi privati nel caso frequente di mancanza di posti nel settore pubblico o convenzionato). A differenza delle scuole per l’infanzia, i nidi sono definiti servizi a domanda individuale, per i quali è richiesta la compartecipazione ai costi da parte dell’utente.
La scarsità dell’offerta, le differenze territoriali e i costi non sempre sopportabili contribuiscono sia a rafforzare le disuguaglianze nelle pari opportunità tra bambini e bambine sul territorio nazionale (fra Nord e Sud) e per classe sociale (sono soprattutto i figli di classi medio-alte, più di quelle popolari, ad accedere), sia a far considerare il nido come un servizio a bassa legittimità culturale, da utilizzarsi solo in caso di estremo bisogno o di mancanza di alternative famigliari. Tutto ciò rende difficile ai genitori, in particolare alle madri di bambini molto piccoli, conciliare la ricerca e il mantenimento di una occupazione, con effetti negativi sia sulle decisioni di fecondità sia sulla permanenza delle donne nel mercato del lavoro e sul loro reddito a medio e lungo termine.

Segnali positivi, ma insufficienti

Con lo schema di decreto, per altro al vaglio di un parlamento i cui orizzonti temporali appaiono incerti, ci si muove decisamente in direzione del valore educativo del nido, richiedendo perciò precise qualifiche professionali a chi vi opera (articolo 2) e aprendo a un modello flessibile di cui il tempo pieno è il nucleo centrale, ma non esclusivo. Tuttavia, due problemi cruciali non vengono risolti. In primo luogo, le risorse aggiuntive messe in campo – 229 milioni all’anno da distribuire a livello locale – costituiscono indubbiamente un segnale positivo, ma non sufficiente a far raggiungere in tempi ragionevoli l’obiettivo del 33 per cento di copertura, anche includendo i nidi convenzionati, i micronidi e i servizi a tempo parziale. I dati Istat riferiti al 2013 indicano che la spesa corrente dei comuni per i servizi per la prima infanzia, al netto del contributo delle famiglie pari a 310 milioni di euro, ammontava a 1,25 miliardi, garantendo una copertura del 13 per cento. I 229 milioni in più l’anno rappresentano un incremento di circa un quinto della spesa attuale. Meglio che nulla, ma lontano dal necessario.
Anche la questione delle rette e dell’accessibilità economica per le famiglie rimane irrisolta. Nella bozza di decreto (articolo 9, comma 1), nell’ottica di un servizio a domanda individuale, si parla ancora di compartecipazione delle famiglie alla spesa, la cui soglia massima non è neppure definita ma rimandata alla “Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, tenuto conto delle risorse disponibili”. Se si pensa che sia opportuno, o inevitabile, introdurre una forma di compartecipazione ai costi, occorrerà individuare criteri più adeguati, che tengano conto anche del possibile effetto selettivo nei confronti di chi non è abbastanza povero per accedere gratuitamente o a prezzo scontato e non è abbastanza abbiente da non doversi preoccupare dell’ammontare della retta.


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