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Ma di questo disastro che cosa diciamo noi professori?

Un metodo di insegnamento concepito per una scuola di élite, che utilizzava la bocciatura come strumento di selezione, è stato applicato ad una scuola di massa

16/07/2019
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la Repubblica

Roberto Contessi

I dati Invalsi 2019 sono in linea con molte altre rilevazioni statistiche dello stesso ambito e raccontano una storia precisa. È sicuramente fallita la promessa di una formazione scolastica che mitigasse le disuguaglianze sociali, promessa elaborata con forza negli anni Settanta, ma tale fallimento è soprattutto didattico. Questo mi pare il punto focale e la politica c’entra quanto basta.

Per quale motivo le indagini statistiche sugli studenti mostrano una fascia significativa di giovani deboli culturalmente? Perché un metodo di insegnamento concepito per una scuola di élite, che utilizzava la bocciatura come strumento di selezione, è stato applicato ad una scuola di massa la quale, per definizione, non può usare la bocciatura se non come soluzione didattica estrema. Un metodo di insegnamento alternativo, però, non è stato mai introdotto in modo strutturale: questa è stata la denuncia di Tullio De Mauro a partire da quegli anni Settanta. Una scuola di massa che accetti un metodo adatto ad una scuola di élite è condannata a sfornare ragazzi i quali, se deboli all’iscrizione a scuola, rimangono deboli all’uscita, cioè al titolo di maturità. Per quale ragione? Perché sono mandati avanti dando loro una sufficienza adulterata al posto della bocciatura. Quella sufficienza, alla cui tavola imbandita siedono genitori, presidi e professori, è un frutto avvelenato per circa quattro diciottenni su dieci come le indagini statistiche dimostrano.

Cocciutamente De Mauro mandava i suoi giovani ricercatori nelle scuole con penna e calamaio per provare le sue idee, scomodissime, attraverso test oggettivi: i numeri gli davano ragione. O meglio, i numeri raccontavano la stessa solfa delle indagini più sofisticate di oggi: quando le classi sono composte da alunni motivati per proprio conto, i risultati erano e restano soddisfacenti, quando invece sono composte da alunni in difficoltà, la scuola non ha mezzi di recupero consolidati e i risultati crollano. De Mauro si è battuto con forza perché le cose cambiassero, riuscendo però al massimo a contribuire all’introduzione delle sperimentazioni scolastiche: le sue idee non hanno mai convinto anzitutto molti professori che non vogliono abbandonare la coppia spiegazione-interrogazione chiusi a chiave nelle loro classi. Però ci ha lasciato in eredità alcune certezze con cui noi dobbiamo fare i conti.

Possiamo continuare su questo crinale e allora direi di eliminare il valore legale al titolo di studio: maturità sì per tutti, ma la vera qualità sarà solo per chi è motivato o avvantaggiato per conto proprio. Certo, sarebbe la morte del dettato costituzionale, la fine di ogni illusione di scuola democratica, ma almeno si direbbe chiaramente come stanno le cose. Oppure, dobbiamo ridare qualità alla scuola che ad oggi è inclusiva solo per quanto riguarda i numeri e, sinceramente, la vedo molto dura.

Molti commentatori attribuiscono la responsabilità dello stato dell’arte a tutti e tutto: web, famiglie, società, politici e ognuno ha la propria croce. Mi chiedo perché non si alzi una sola voce per ragionare sugli attori di questo stato dell’arte, i professori: sono vittime inermi o testimoni inconsapevoli? Io credo né l’una né l’altra cosa. —

L’autore insegna Filosofia al Liceo Giulio Cesare di Roma. Ha scritto "Scuola di classe" (Laterza)


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