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Le Università italiane? «Piccole e troppo locali». Nei ranking pesa più la reputazione della qualità

Nunzio Quacquarelli, direttore di Qs spiega perché i nostri atenei non arrivano in cima alle classifiche globali

17/10/2013
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Corriere della sera

L’Università italiana? Difficile da «vendere» all’estero. «Un Paese che ha una grande tradizione accademica, oggi ha atenei tagliati su un mercato prevalentemente nazionale, anzi, addirittura locale». Docenti e studenti che scelgono corsi appena fuori della porta di casa; un numero eccessivo di università, sparse sul territorio e spesso di piccole dimensioni, quasi fossero dei «superlicei»; poca ricerca; investimenti scarsi; aule sovraffollate. Nunzio Quacquarelli - inglese di lontana discendenza italiana e managing director di Qs, l’ideatore dei Global Academic Surveys, il sistema di analisi di parametri accademici che vengono tradotti, dal 2004, in classifiche mondiali dell’eccellenza - non risparmia critiche. Vede il Belpaese troppo ripiegato su se stesso e il nostro sistema di formazione superiore incapace di creare progetti validi, che attirino risorse economiche e generino crescita. «Non è solo una questione di corsi in inglese che mancano, che pure attirerebbero studenti stranieri – dice – ma di mentalità: il vostro governo dovrebbe investire di più e meglio e aprire le porte a studenti e accademici internazionali».

LE ITALIANE ARRANCANO - Nell’ultima edizione del QS World University Rankings - classifica delle migliori 800 università al mondo pubblicata ogni anno da Quacquarelli Symonds (QS), network internazionale dedicato alla formazione e alle professioni – il primo tricolore sventola al 188esimo posto, con l’Università di Bologna; seguono la Sapienza di Roma (196esima) e il politecnico di Milano (230esima posizione); quarta l’Università degli Studi di Milano (235esimo posto), quinta Pisa (259esima). Le ragioni per cui gli atenei di casa nostra non entrano mai nel gruppo dorato delle migliori - che vede nei primi cento posti per lo più inglesi e americani - sono evidenti scorrendo i criteri adottati nella valutazione: «Per il 50% pesa la reputazione accademica» - spiega Quacquarelli (a Milano per la fiera itinerante «QS-World Grad School Tour»: vetrina di master e PhD internazionali, ndr) - che si ricava attraverso sondaggi di opinione tra docenti e ricercatori. Quest’anno ne abbiamo interpellati più di 62mila». E qui - sostiene l’esperto - l’Italia è penalizzata dalla scarsa capacità di «fare rete». Un altro 20% è dato dalla qualità dell’insegnamento. «Per ottenere dati comparabili a livello globale ci basiamo sulla ratio docenti-studenti, indicativa dell’attenzione agli studenti e della capacità dell’università di investire». In Italia il rapporto è di 1 a 20, negli Stati Uniti, ogni 4 studenti c’è un docente a disposizione. «Terzo criterio – prosegue Quacquarelli – le “citazioni” dei lavori prodotti dagli accademici». E anche se ormai si tende a pubblicare ricerche sempre più in inglese, i lavori italiani non hanno sufficiente visibilità. Segue la reputazione presso i datori di lavoro (la cosiddetta employability): «27mila recruiters interpellati nel mondo ci hanno spiegato da quali università preferiscono assumere e perché». Infine, si valuta la quantità di docenti e studenti internazionali e i visiting professors.

LA CLASSIFICA «THE» - Insegnamento, ricerca, citazioni, contributo all’innovazione e prospettiva internazionale sono i parametri adottati da un’altra società britannica per stilare la sua classifica dei migliori atenei del mondo: la Times Higher Education World University Ranking, che prende il nome dalla rivista Times Higher Education che si occupa di istruzione superiore. Tra il 2004 e il 2009 lavorava in collaborazione con Qs, ma dal 2010 ha iniziato a pubblicare una propria versione della classifica. Anche qui, l’Italia è quasi assente. Nel ranking relativo agli anni 2013-2014, che nei primi 10 posti conta ben otto università statunitensi e due britanniche, la prima di casa nostra è l’Università di Trento. Ma per incontrarla bisogna scendere fino alla posizione 221. Quindici in tutto gli atenei presenti nelle prime 400 posizioni.

INDIETRO A SHANGHAI E NEI MASTER - Ancora? La classifica Arwu (Academic Ranking of world universities), delle migliori 500 università del mondo, realizzata dalla Jiao Tong University di Shanghai, che riconosce ad Harvard il primo posto, piazza gli atenei di Milano e Padova tra il 151esimo e il 200esimo posto, Roma e Pisa nel blocco 101-150, Bologna, Firenze, Torino e il Politecnico di Milano tra il 200esimo e il 300esimo. Di più: nessuna Università italiana figura nell’annuale ranking dei master in Business Administration dell’Economist: non c’è la Bocconi, il fiore all’occhiello in Italia in quel settore, dove al primo posto svetta Chicago, con le sue statistiche impressionanti: laureati che trovano lavoro a uno schiocco di dita e salari medi di 115 mila dollari (ma la Sda Bocconi si rifà nella classifica di Forbes: terza fra i master Mba fuori dagli Usa). E gli Stati Uniti occupano quattro delle prime cinque posizioni in questa speciale classifica; 16 se si guarda alle prime 25. In Europa la prima a comparire è la spagnola IESE, 5oesimo posto; 80esima la parigina HEC.

IL MODELLO SINGAPORE - Come se ne esce? «Imitando il modello di Singapore», dice Quacquarelli: «La Nus – National University of Singapore – ha deciso 5 anni fa di cambiare radicalmente, pur essendo già tra le prime cento top universities. Ha offerto la posizione di Rettore a un accademico svedese di grande fama, Bertil Anderson, che ha assunto gli insegnanti migliori, reclutandoli in tutto il mondo, ha investito in centri di ricerca in settori nuovi, dale energie pulite alla purificazione dell’acqua, ha allacciato partnership con aziende e università in tutto il globo. Il tutto, ovviamente, con potenti investimenti governativi. In pochi anni è entrata nella top 20». Ma anche la Francia è sulla strada giusta, dice il manager «con università di qualità che collaborano tra loro per la ricerca e fanno rete per progettare e impartire corsi. O la Germania, dove si punta sulle eccellenze. In Italia, al contrario, sembra che si cambino le cose solo per creare lavoro nel settore pubblico: operazione forse più semplice che creare settori di alta qualità. Ma è un errore enorme».

LA QUALITÀ - Ma le graduatorie hanno senso per chi studia? «Le classifiche servono soprattutto a capire che cosa funziona meglio e cosa non va. Sono molto apprezzate dai recruiters di tutto il mondo. E sono sempre più numerosi i ragazzi che le consultano per ponderare le proprie scelte». Quattro milioni e mezzo circa, secondo l’ultimo rapporto Ocse Education at a Glance, quelli che si allontanano dal proprio Paese per studiare (ma solo il 2,3% di italiani, contro il 5,4% dei tedeschi, il 53% sono asiatici). Ma anche quelli che studiano a casa con «mentalità internazionale» devono poter scegliere in base a parametri certi l’offerta disponibile. L’importante è avere chiaro che cosa mettono a fuoco le classifiche: «Per semplificare, si può dire che Qs mette a fuoco criteri rilevanti per gli studenti: la proporzione tra docenti e studenti, l’apertura internazionale, il riconoscimento dei datori di lavoro”, dice Simona Bizzozero, dello staff Qs. L’università di Shanghai cerca le punte di eccellenza, i risultati accademici, premi Nobel, riconoscimenti internazionali. E Times Higher Education dà la priorità alle risorse finanziarie e di organico». Nessuna di queste graduatorie inquadra la qualità dell’insegnamento: «Impossibile - ammette Quacquarelli -. Si sono trovati i criteri più vicini ad esprimere a livello globale la qualità della docenza».

VERSO UNA CLASSIFICA EUROPEA - Una nuova classifica potrebbe presto nascere anche in seno all’Unione europea. Il ministro dell’istruzione, Maria Chiara Carrozza, nella nuova versione del decreto sulla programmazione triennale (2013-2015) delle università, ha recentemente proposto a Bruxelles che l’Unione adotti un sistema di classifiche comunitarie proprio per valutare le università continentali. Obiettivo? Favorire la libera circolazione dei laureati, la riconoscibilità dei titoli in Europa, la creazione di uno spazio di istruzione europeo, la visibilità internazionale delle eccellenze. Quelle italiane, soprattutto. «Che sono tante ammette Quacquarelli. Ma sono eccellenze di nicchia: hanno bisogno di una ribalta per essere valorizzate».