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“Le conoscenze ci sono, le risorse no”

Viaggio nel distretto biomedicale emiliano all’indomani dell’exploit di Parigi: Il pubblico investe su 24 mesi ma i nostri tempi sono più lunghi

23/12/2013
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La Stampa

Nel distretto di Mirandola, capitale del settore biomedicale italiano con una novantina di imprese e cinquemila addetti, ci sarebbero tutte le condizioni per realizzare un prodotto d’eccellenza come il cuore artificiale appena impiantato in Francia: una cultura industriale accumulata in 50 anni d’esperienza, tecnologie avanzatissime, know-how. E invece? Invece ci tocca guardare i cugini d’Oltralpe con la certezza che un risultato del genere è fuori dalla nostra portata. Non perché manchino competenze e professionalità, ma a causa dei difetti di casa nostra che impediscono ai progetti di lungo respiro di prendere il volo. A cominciare dalla carenza delle risorse finanziarie necessarie, che sono ingentissime. A spiegare il meccanismo è qualcuno che questo mondo lo conosce come le sue tasche per averci lavorato per 37 anni, venti dei quali alla guida del Consobiomed, il Consorzio delle piccole e medie imprese del biomedicale: «A quanto so, in Francia è da dieci anni che lavorano sul cuore artificiale, si tratta di studi e ricerche di lungo periodo che purtroppo in Italia non si possono fare perché non ci sono le risorse – dice Luciano Fecondini, ingegnere -. Da noi, per esempio, sarebbe particolarmente difficile mettere in piedi l’integrazione fra un leader industriale fortemente capitalizzato e radicato sul territorio da un lato, e l’università dall’altro». Nei dintorni di Mirandola, dove i festeggiamenti per il mezzo secolo di vita del biomedicale ha coinciso tristemente con gli sconquassi del terremoto del 2012, operano sei multinazionali (4 italiane e 2 straniere) e 80 aziende di dimensioni medie o piccole. «La cultura industriale c’è e il know-how e le tecnologie pure,ma le risorse no – ribadisce Fecondini -: in Francia i capitali sono stati raccolti dalla Borsa, sul modello americano, il che in Italia non esiste. D’altra parte il pubblico non investe sul lungo periodo, tutt’al più su 24 mesi, quando invece, in casi come questi, i tempi sono ben più lunghi». Il distretto ha preso corpo fra gli Anni 70 e 80, guadagnandosi i gradi di leader europeo del biomedicale, dopodiché sono cominciati i problemi: «Nel nostro Paese è venuto a mancare lo Stato, con i ritardi nei pagamenti delle forniture e con la conseguente carenza di capitali, perché gli ospedali non saldano le fatture – racconta l’ingegnere -. Tutto questo però ha limitato l’attività di ricerca e sviluppo, e così sono arrivati tedeschi e americani a rilevare le nostre attività». Alla lunga il sistema si è rivelato inadeguato a reggere l’urto di progetti complessi e particolarmente costosi, dove il capitale di rischio è altissimo e, su dieci tentativi, otto falliscono e due vanno in porto, ma quei due garantiscono esiti strepitosi. «Mancanza di capitali e di programmazione, ecco perché siamo tagliati fuori da queste cose – riflette amaramente Fecondini -. Lavoro molto con società americane che operano col venture capital, investendo capitali ingenti su operazioni ad alto rischio. Le poche che riescono, però, raggiungono risultati eccezionali». L’amarezza aumenta quando si pensa alla qualità raggiunta dai dispositivi prodotti nel distretto: a Mirandola c’è l’azienda leader mondiale delle macchine che garantiscono il funzionamento di cuore e polmone durante le 6-8 ore di interventi cardiochirurgici a cuore aperto, per un milione e 200 mila operazioni all’anno in tutto il mondo. Come dire che anche da noi le premesse per realizzare sogni come il cuore artificiale sono solidissime. Mancano invece i progetti di largo respiro e, soprattutto, i soldi per finanziarli. I privati, specie in tempi di vacche magre come questi, non ne dispongono, e del pubblico - dicono «è meglio non parlare


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