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Le colpe degli adulti

È il clima fuori, il vero problema. Il vento di ostilità, di diffidenza, di sfiducia, se non perfino di sprezzo, che soffia sulla scuola da tempo

20/04/2018
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la Repubblica

Paolo di Paolo

Il bullo di Lucca che minaccia il suo professore, intimandogli di mettere un sei sul registro, è colpevole. Ma i suoi complici non lo sono meno. E non si tratta dei compagni di classe; i complici peggiori non erano in aula con lui, ma fuori: fra noi adulti, bulli più o meno consapevoli, anche solo nella testa, la stortura di un pensiero prepotente sempre più invasivo.

Se uno studente dice alla sua insegnante «ti sciolgo nell’acido», come è successo a Velletri, supera un limite non solo verbale: le «regole minime», come le ha definite giustamente un dirigente scolastico. Resta comunque un caso isolato, e come tale va trattato. L’intemperanza, l’aggressività o la semplice maleducazione non sono niente di nuovo, come pure vorrebbe dare a intendere un moralismo un po’ facile.

Il clima, o meglio il microclima, di una classe è quasi sempre, tutto sommato, gestibile. È il clima fuori, il vero problema. Il vento di ostilità, di diffidenza, di sfiducia, se non perfino di sprezzo, che soffia sulla scuola da tempo. Decenni in cui, a poco a poco, abbiamo lasciato erodere credito e autorevolezza di un’istituzione decisiva, forse la sola indispensabile in una comunità umana.

Se c’è qualcuno che ha davvero “ bullizzato” la scuola, più e forse peggio dello studente di Lucca, sono state le parole del discorso pubblico, e perfino di quello strettamente politico. Di stagione in stagione, parole insofferenti verso la dimensione pubblica dell’istruzione, irridenti o liquidatorie nei confronti di docenti mal retribuiti, presi per pedine di ottuse logiche aziendaliste, per esecutori di riforme a getto continuo e spesso senza alcuna sostanza.

Abbiamo lasciato, con indifferenza, che dai primi e più autorevoli gradini della scala sociale, gli insegnanti scivolassero verso gli ultimi: carne da macello per concorsi, pendolari della supplenza; ridotti a registratori di “ competenze”, alla funzione mortificante di argine a famiglie sempre più invadenti, polemiche, rissose. Qualche anno fa, avevo inserito in un romanzo una paradossale notizia di cronaca: un professore che, esasperato, aveva cercato di investire con l’auto un suo studente. Eccessiva, certo, e appunto romanzesca, ma sintomatica di un malessere diffuso che l’entusiasmo, la passione (ne vedo ancora e dovunque a palate) non sempre riescono a placare.

Avevo provato a immaginare la stanchezza, quella particolare stanchezza. Non è rassegnazione, forse, o non ancora. Fingiamo di non vederla, di non saperne niente. E ci accodiamo al coro, superficiale quanto pernicioso, di chi alla scuola attribuisce tutte le colpe e le responsabilità, chiamandosi automaticamente fuori. Come se la scuola fosse la fabbrica, più o meno accreditata, di un sapere da assorbire in fretta, di nozioni da mandare giù senza nemmeno troppi traumi e troppa fatica, e quel tanto che basta a prendere il “pezzo di carta”, come vuole una fra le più penose frasi idiomatiche. Come se la scuola fosse da una parte, e la società dall’altra: entre les murs, tra quattro pareti, per citare un illuminante film di Laurent Cantet su un’aula- trincea. Come se non ci fosse, o non più, alcuna autentica e vitale relazione fra chi siede fra i banchi ogni mattina e chi, crescendo, li ha lasciati.

Così, quando il bullo quindicenne fa la sua parte indegna, appena dopo aver condannato lui, dovremmo ricordarci di condannare noi stessi. Perché quel gesto irrispettoso e mortificante rende brutalmente visibile anche un po’ della nostra latitanza. E l’incapacità di guardare alla scuola come al luogo in cui si gioca tutto, trattandola invece da parcheggio, da ufficio estrazione voti buoni, da alibi collettivo.


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