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La seconda educazione

di Benedetto Vertecchi

28/02/2015
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Alcuni decenni fa, prima della riforma della Scuola Media, si notava con giusta preoccupazione che larga parte della popolazione italiana era sprovvista di titoli di studio e che erano ancora numerosi gli adulti analfabeti. Oggi quella condizione appare lontanissima. In meno di mezzo secolo il quadro è profondamente cambiato, tanto che ormai la grande maggioranza dei ragazzi completa il percorso degli studi secondari. Se ci limitassimo a considerazioni strettamente descrittive, interpretando l’acquisizione di titoli di studio come prova del raggiungimento di un determinato livello di cultura formale, dovremmo concludere che il livello d’istruzione della popolazione si è enormemente elevato e che le differenze tra le classi sociali sono state fortemente ridotte. Potremmo considerare realizzato un disegno che affonda le sue radici nell’utopia di Moro e di Bacone e ritenere che la conoscenza sia un bene disponibile per tutti. La società ci sembrerebbe pervasa dalla forza della ragione. Sappiamo che non è così. I titoli di studio certificano conoscenze che non sono mai state acquisite, o che hanno avuto una permanenza molto transitoria del profilo di chi abbia seguito determinati percorsi scolastici. Nella scala dei valori sociali il conseguimento di un facile successo è preferito all’impegno lungo e faticoso necessario per progredire nelle arti e nelle scienze. Si rivela illusorio quell’intento di uguaglianza delle opportunità educative che era stato un criterio di riferimento per chi credeva che la conoscenza avrebbe concorso ad abbattere steccati secolari e a liberare dai condizionamenti della superstizione. Chi collegava i progressi della scolarizzazione al superamento delle differenze fra le classi sociali si trova ora a constatare che è accaduto il contrario: chi non gode di condizioni favorevoli per appartenenza familiare giungerà a conseguire titoli di studio di livello elevato, ma continuerà a trovare ogni sorta di ostacoli nel percorso verso il conseguimento di una reale qualificazione culturale e scientifica.

Si direbbe che l’istruzione abbia perso la forza propulsiva. All’utopia positiva che considerava l’educazione come la condizione necessaria per il miglioramento delle condizioni di vita e per il progresso della società si è sostituita un’utopia di segno contrario, subdolamente rivolta a conservare in stato di soggezione quella grande maggioranza di persone che sembravano esserne uscite per effetto dell’istruzione formale. È un’utopia che si realizza per sottrazione inapparente: se si certificano conoscenze non acquisite in un determinato ciclo scolastico (per esempio, quello di base o quello secondario), è molto improbabile che quelle conoscenze siano recuperabili nel seguito della vita. Si tratta di una sottrazione che si realizza affermando un criterio educativo centrato sulla semplificazione: si sostiene che certi aspetti dell’apprendimento sono eccessivamente complessi, e che debbono essere trasformati per essere accessibili ad un gran numero di allievi. Si interviene pertanto sul messaggio di istruzione, rinunciando per le successive leve di allievi (gradualmente, ma inesorabilmente) alla precisione lessicale e sintattica e all’adeguatezza della struttura argomentativa. All’educazione scolastica si applica la medesima strategia che ha mostrato di essere funzionale per le azioni di condizionamento effettuate attraverso i mezzi di comunicazione di massa: la riduzione della qualità del messaggio (in termini lessicali e sintattici) produce un ampliamento del pubblico raggiungibile, avviando una dinamica discendente elicoidale. I solecismi e le banalità di cui sono infarciti i messaggi della comunicazione di massa finiscono col caratterizzare l’ambiente culturale disponibile per strati maggioritari della popolazione, deprimendone gli atteggiamenti interpretativi e critici. A differenza di quanto accadeva fino a qualche decennio fa, quando la deprivazione culturale era percepita per le sue implicazioni negative, i messaggi banalizzati prodotti dai mezzi di comunicazione diffondono una falsa percezione di adeguatezza, alla cui determinazione concorre anche l’effetto d’alone degli apparati strumentali utilizzati. In altre parole, la fascinazione tecnologica concorre ad accreditare messaggi poveri di contenuto e spesso prevalentemente rivolti a indurre atteggiamenti acquiescenti e conformisti.

Tra la comunicazione sociale e l’educazione scolastica tesa alla semplificazione si stabilisce una solidarietà di intenti e di soluzioni che è tra le ragioni delle difficoltà che la scuola incontra nello svolgere il suo compito. L’efficacia dell’educazione scolastica consiste, infatti, proprio nella sua capacità di sviluppare e organizzare secondo modelli autonomamente definiti i messaggi di istruzione. L’educazione ha avuto successo quando si è posta come alternativa alla cultura sociale, rispetto alla quale ha esercitato un ruolo di contraddizione. Se la cultura dell’educazione si appiattisce su una cultura sociale trascinata al ribasso da sistemi di comunicazione controllati da apparati ideologici (come è attualmente non solo in Italia, ma in molti paesi dell’Occidente democratico, a cominciare dagli Stati Uniti), la sua capacità di attrazione non può che diminuire. La scuola incontra una difficoltà sempre maggiore a svolgere il suo compito. Gli insegnanti vedono sfaldarsi le condizioni per svolgere correttamente il loro lavoro. Gli allievi cessano di attribuire valore ai contenuti dell’educazione. Si realizza il paradosso di una scuola che diventa incapace di continuare ad agire come fattore di trasformazione proprio quando, apparentemente, ha raggiunto il suo massimo sviluppo storico.

In questo scenario di utopia deviata, quella che si offre a strati crescenti della popolazione è una seconda educazione. La semplificazione del messaggio educativo erode la possibilità di manifestare un pensiero originale e critico. La prima educazione, che nel corso del Novecento si era creduto di poter estendere a tutta la popolazione, permane  come condizione privilegiata di sviluppo per le élite sociali. Si è peccato di ottimismo ritenendo che i processi di modernizzazione trainati dalle trasformazione economiche sarebbero stati sufficienti a creare condizioni favorevoli per il progresso dell’educazione. Lo stesso ottimismo si manifesta quando si accettano formule suggestive, ma generiche che stabiliscono un rapporto privilegiato tra le trasformazioni culturali e lo sviluppo economico e tecnologico (è il caso di espressioni come società della conoscenza, che vorrebbero essere descrittive e invece sono ideologiche).

Occorre ripensare il ruolo dell’educazione formale, e ripensarlo in una prospettiva di riunificazione della prima e della seconda educazione (può essere questa la nuova utopia?). La scelta da effettuare è, prima di tutto, politica. Se l’intento che si persegue è l’abbattimento delle nuove barriere sociali e l’affermazione di un principio di uguaglianza tra i cittadini, bisogna prima di tutto contrastare quelle dinamiche riduttive che hanno consentito il manifestarsi di una seconda educazione. Si deve respingere un criterio educativo centrato sulla semplificazione, riprendendo un percorso ascendente nel quale non ci sia spazio per la superficialità, l’approssimazione, la sciatteria, la rincorsa di suggestioni marginali ed episodiche. Per dare senso ad una nuova prospettiva di progresso abbiamo bisogno di realizzare condizioni favorevoli perché si esprima tutta l’intelligenza dei nostri bambini e dei nostri ragazzi. Gli adulti non possono ritenere che le loro responsabilità si esauriscano nel porre a disposizione delle nuove leve di popolazione paccottiglie consumiste. Il rifiuto della semplificazione riguarda tutte le età della vita. Una società adulta narcotizzata da messaggi che hanno come principale intento quello di deprimere la capacità di interpretazione del reale è incapace di stabilire con i bambini e i ragazzi interazioni che non siano depressive per la loro intelligenza.