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La scuola senza zaino “Libri condivisi niente cattedre né voti la nostra rivoluzione”

A Fauglia, il comune toscano che ha lanciato un metodo diventato realtà in 15 anni per 20 mila studenti di 100 istituti

11/09/2016
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la Repubblica
FAUGLIA ( PISA).
I banchi sono tavoli scomponibili e la cattedra semplicemente non c’è. Nessuno ha l’astuccio perché le matite sono di tutti, così come i colori, la scatola delle parole, le penne con l’impugnatura facile e gli “xilofoni” di legno per imparare a contare. Non ci sono pesi né voti nella “Scuola senza zaino”, metodo didattico all’avanguardia che sta conquistando l’Italia, niente libri e quadernoni da trascinare sulle spalle avanti e indietro, ogni cosa resta in classe, e le pareti, in questa primaria di Fauglia, a pochi chilometri da Pisa, dove l’esperimento è cominciato, sono fatte di vetro e mattoni rossi. Il fuori e il dentro che comunicano. «La luce, i colori, le architetture sono fondamentali nelle nostre scuole, chi ha detto che lo studio debba spezzare le schiene o deprimere i bambini in aule spoglie e disadorne, imparare può essere un percorso collettivo di gioia e leggerezza, lo hanno scritto i più grandi pedagogisti, noi con “Senza zaino” stiamo cercando di realizzarlo».
Un’avventura iniziata quindici anni fa, e che Daniela Pampaloni, dirigente scolastica dell’istituto comprensivo Giovanni Mariti di Fauglia e tra gli ideatori del metodo “Senza Zaino”, descrive con orgoglio e passione.
«Il nome deriva da un saggio del fondatore, Marco Orsi, un modo simbolico per raccontare una scuola che libera i ragazzi dal “peso” di quei libri portati avanti e indietro sulle spalle, in solitudine, e propone invece un modo di apprendere collettivo, dove si studia in tavoli comuni, i bambini si aiutano, gli insegnanti non hanno la cattedra, il sapere insomma non cade dall’alto in basso, spesso non ci sono i libri, perché tutto il materiale viene auto-prodotto insieme, in classe, tra insegnanti e allievi». I quaderni, ad esempio, con righe e quadretti particolari, per aiutare la scrittura e l’ordine. I contatori della matematica, inventati dai maestri stessi e poi codificati. L’attenzione al corsivo, perché aiuta lo sviluppo del pensiero. La tecnica è quella del “problem solving”: i bambini imparano risolvendo ogni volta dei quesiti, come assemblare quella parola ad esempio, o come contare mille cannucce, scoprendo così le decine. E poi autocorregendosi, con i materiali appositi. Ricorda la maestra Silvia Coppedè: «Avevo comprato mille cannucce e durante la lezione di matematica le ho rovesciate tutte sul tavolo collettivo, chiedendo ai bambini della prima di trovare un modo di contarle: autonomanente le hanno divise in gruppetti da dieci…».
Partito nel 2002 da questo pezzo di Toscana chiamato “Valdera”, il metodo “Senza Zaino”, ispirato soprattutto, dice Daniela Pampaloni, «a Maria Montessori, e agli studi dei pedagogisti Célestin Freinet e John Dewey, ma anche alla filosofia della non violenza di Danilo Dolci», è oggi diffuso in più di cento istituti e seguito da quasi ventimila bambini e ragazzi. Racconta Maria Cifalù, mamma di Tommaso, che tra pochi giorni inizierà la quinta elementare: «All’inizio ero scettica, mi mancava la classe tradizionale, temevo che il lavoro collettivo si trasformasse in un caos senza regole. Poi ho visto invece che nella libertà i bambini imparano a responsabilizzarsi ». Sorride Daniela Pampaloni: «Se al tavolo collettivo un bambino che non sa fare un calcolo guarda il lavoro del vicino, non vuol dire che copia, ma semplicemente che sta imparando per imitazione». Responsabili-tà, comunità e ospitalità sono infatti le parole d’ordine del metodo. Un po’ come nell’esperienza degli asili di Reggio Emilia, gli spazi delle scuole “Senza Zaino” vengono ridisegnati da architetti specializzati nel metodo. Bisogna allora entrare nelle diverse strutture che compongono l’istituto capofila Giovanni Maritati per capire quanto l’architettura sia fondamentale alla didattica. La scuola Danilo Dolci del piccolo comune di Cenaia, ad esempio, dove le maestre Cristina Gasperini e Silvia Coppedè mostrano un’aula dove non esistono banchi singoli ma “isole” che possono scomporsi, dove ogni classe ha la sua “agorà”, un angolo dove si sta seduti su cuscini e divanetti e si legge e si discute, e poi schedari, raccoglitori, ogni tipo di materiale. Ma anche tablet e computer.
«I bambini — dice Cristina Gasperini — hanno l’aula dedicata alle materie linguistiche, quella della matematica, e poi quella dell’inglese e dell’informatica. Girano tra le classi, come nelle mitiche scuole finlandesi... E le classi stesse hanno pareti mobili, per diventare ancora altri spazi. Tutto è flessibile nel nostro modo di insegnare, i tempi, i modi, forse è per questo che sempre più bambini si iscrivono nelle nostre scuole, e molti spesso in fuga da altre esperienze». Maria è la mamma di due bambini della “Danilo Dolci”: «Per i miei figli è stata un’esperienza straordinaria. Qui hanno imparato a ragionare.E per me è moltissimo ».

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