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La scuola è il banco di prova per l’unità del Paese

L'istruzione dovrebbe essere tolta dal tavolo della trattativa. Ma non sarà facile indurre Bussetti a cambiare rotta, dopo che ha gettato alle ortiche il suo buon nome di ministro

12/07/2019
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il manifesto

Massimo Villone

Finalmente abbiamo visto a Palazzo Chigi volare un po’ di stracci per l’autonomia differenziata. Probabilmente hanno contribuito a generare la tempesta le bozze pubblicate da Roars. Sono persino peggiori di quel che si poteva pensare, e di sicuro spazzano via ogni residua ipocrita rappresentazione di inconsapevolezza. Era davvero intollerabile la sensazione che scelte di vitale importanza per il futuro del paese scivolassero su un piano inclinato di miserabili scambi con questioni di assai minore momento, o ancora peggio con un attaccamento alla poltrona.

A quanto si sa, il conflitto si è aperto sulla scuola, ed è giusto così. Anzitutto per la cruciale importanza che ad essa riconoscono sia i fan che gli oppositori dell’autonomia differenziata. C’è bisogno di un fondamento culturale sia per l’unità che per la separatezza. È la cultura sottostante che ne determina l’attrattività e la durevolezza nel tempo. La scuola è necessaria a difendere l’unità del paese, come è necessaria a chi il paese vuole dividere per costruire una cultura separatista. Dall’esperienza catalana viene qualche lezione.

Può darsi che si mostri impossibile andare avanti sulla scuola, e lo speriamo. Dovrebbe essere tolta dal tavolo della trattativa. Ma non sarà facile indurre Bussetti a cambiare rotta, dopo che ha gettato alle ortiche il suo buon nome di ministro. Mentre firmava l’accordo con i sindacati della scuola del 24 aprile di nascosto costruiva la iper-regionalizzazione nelle bozze di intesa. Come ha commentato, sul modello del Trentino-Alto Adige. E c’è da chiedersi come M5S l’abbia lasciata passare, pur essendo presente a livello di sottosegretario. Comunque, anche una tardiva resipiscenza è meglio di nulla.

Altro ostacolo, a quanto si apprende, le risorse. Vedremo di capire meglio. Ma ormai sono molte le testimonianze – nelle audizioni, oltre allo stesso ministro Tria, Viesti, Giannola, Guerra, Cerniglia – che certificano come con il meccanismo previsto nelle intese non sia possibile evitare un ingiusto e irreversibile privilegio per le tre regioni secessioniste, e giungere a una distribuzione delle risorse equilibrata e attenta ai bisogni, alla solidarietà e alla coesione territoriale. L’ultima voce in tal senso è di Zanardi, dell’Ufficio parlamentare di bilancio (organo tecnico indipendente e lontano dalla politica), che in audizione il 10 luglio si aggiunge alla valutazione negativa del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi nell’appunto reso al premier Conte.

Altri ostacoli si profilano. Come si potrebbe ad esempio giustificare il passaggio al demanio regionale di infrastrutture e opere pubbliche – come le autostrade – costruite nel tempo con i soldi di tutti gli italiani? Con l’effetto collaterale, a causa della maggiore infrastrutturazione del Nord, di un ulteriore occulto drenaggio di risorse dal Sud. E che dire di uno Stato reso incapace di politiche nazionali di sviluppo e riequilibrio?

Il contrasto che si è aperto potrebbe essere l’occasione buona per rimettere l’autonomia differenziata sul binario di una corretta lettura dell’art. 116, co. 3, Cost., ponendo fine alla bulimia delle regioni di testa e riconducendo le richieste a ragionevoli e limitate forme e condizioni particolari di autonomia.
Basta colpi di mano volti a spaccare il paese occultando le carte e puntando alla mera ratifica di un parlamento imbavagliato. L’Italia ha già vissuto la difficile vicenda di una Padania secessionista. Evitiamo il remake di un «grande Nord» separatista.
E dunque vogliamo sperare che a Palazzo Chigi non sia stata una fake war, di mera rappresentazione teatrale. Se son rose, fioriranno. Anzi, nella specie, appassiranno.


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