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La scuola e i concorsi da fare

I posti e il merito

02/10/2020
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Corriere della sera

Sabino Cassese

Una inedita alleanza Lega, Pd, sindacati della scuola, dopo aver spinto per rinviare ad ottobre il concorso straordinario per la scuola bandito ad aprile, vuole ora che non si faccia. «Si apra il tavolo per una soluzione migliore», ha detto qualcuno. Qualcun altro ha proclamato: «non fare nessun concorso»; «stabilizzare le migliaia di precari che insegnano già da anni». Resiste coraggiosamente la ministra Azzolina.

I posti sono 32 mila, i candidati poco più di 64 mila. Il concorso è riservato a chi è stato supplente per tre anni e consisterà in una prova scritta di due ore e mezzo. È necessario non solo perché i candidati sono il doppio dei posti, ma anche perché il sistema scolastico è nazionale, i supplenti sono stati scelti dagli uffici scolastici regionali e in qualche caso dai dirigenti scolastici, sulla base di criteri diversi e talora non rigorosi (Boeri e Rizzo, nel loro libro Riprendiamoci lo Stato, hanno segnalato il «trenino delle maestre»: l’insegnante si ammala; viene nominato il supplente, che si ammala a sua volta, e così via).

Ma ci sono molti altri motivi per cui bisogna fare i concorsi. Ci obbliga la Costituzione, articolo 97: «agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso». Solo con il concorso (con un concorso fatto perbene) si può misurare il merito, cioè qualità, esperienza, capacità, abilità.

Solo il concorso dà eguali possibilità a tutti: senza concorso, potrà avere il posto quello che è più vicino al politico di turno, o al dirigente amministrativo, perché la scelta è discrezionale, non competitiva, non operata da una commissione imparziale. Insomma, prevarranno affiliazioni, familismo, talora corruzione. Inoltre, se non si seleziona mediante concorso, si può immaginare la frustrazione di chi ha faticato per vincerne uno e che si vede affiancato da un vicino che arriva senza sforzo. Infine, bisogna rispettare le regole, alle quali non si può continuamente derogare.

C’è un ulteriore motivo per reclutare i dipendenti pubblici mediante valutazioni imparziali del merito, aperte a più concorrenti, e questo riguarda specificamente la scuola. L’istruzione è un fattore chiave del benessere individuale, della crescita economica, della partecipazione politica. Se si vuole trasferire potere al popolo, il mezzo migliore è l’istruzione. Essa è invece il tallone d’Achille italiano. Siamo al penultimo posto tra i Paesi Ocse per quota di persone tra i 25 e i 39 anni con qualificazione terziaria (28 per cento, contro una media Ocse del 44 per cento e Canada, Giappone e Corea del Sud al 60 per cento). Siamo al primo posto per quota di popolazione tra 15 e 24 anni che non lavora, non studia, non si addestra (cosiddetti Neet). Gli studenti italiani sono sotto la media dei Paesi Ocse per capacità di lettura, in matematica e in scienze. Circa la metà della popolazione appartiene alla categoria degli analfabeti, degli analfabeti di ritorno o degli analfabeti funzionali. Abbiamo, quindi, un enorme bisogno di istruzione, e quindi di buoni insegnanti, non per dare loro un posto, ma per consentire all’Italia di aver un posto tra i Paesi sviluppati. Per questo non ci possiamo permettere di assumere insegnanti senza un criterio e senza una autentica selezione comparativa (non dimentichiamo che l’ultimo concorso per la scuola fu svolto quattro anni fa, che tra dieci anni vi sarà nelle scuole italiane un milione di studenti in meno, che nell’aprile scorso sono stati banditi due concorsi ordinari, aperti a tutti, per poco più di 45 mila posti, a cui si candidano 500 mila concorrenti).

C’è un ultimo e più generale motivo per assumere personale con procedure selettive e competitive. Lo Stato, se vuole che la società rimanga coesa, deve avere e rispettare un minimo di regole comuni, perché non esiste uno Stato «fai da te». Non può, sotto la spinta dell’emergenza (ma in Italia siamo sempre in emergenza) creare regimi di eccezione. In questo caso, un regime che invoglierebbe tutti a conquistare un posto precario per poi ottenere il posto di ruolo. Far abituare all’idea che basti mettere il piede nella porta socchiusa, per poi spalancarla, corrode quell’affidamento nel rispetto delle regole (in questo caso, una norma costituzionale) che unisce una comunità statale, e insinua la sfiducia nel tessuto sociale. Non bisogna, quindi, abbattere quella diga che regge la società, in questo caso quella che dà a tutti parità di «chance», selezionando in base al criterio del merito e rispettando le regole che valgono per tutti. In particolare nella scuola, in un Paese in declino da un quarto di secolo, occorre coltivare l’idea che a tutti sono aperte tutte le strade, se sanno dimostrare di esser capaci e meritevoli. Quelli che si riempiono la bocca con la parola popolo dovrebbero ricordare che questo è composto di cittadini con gli stessi diritti e che i privilegi chiudono la porta ad alcuni. Un plauso alla ministra Azzolina: non ceda.


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