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La scuola come un'impresa? Magari!(da www.casadellacultura.it

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23/05/2002
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La scuola come un'impresa? Magari!
Intervista a Di Rienzo, preside dell'ITC Tosi di Busto Arsizio

A confronto, in un lungo colloquio, con Benedetto Di Rienzo, preside dell'ITC Tosi di Busto Arsizio, un preside dalle idee chiare che non ha paura di usare la parola "brand" e che s'incaponisce a immaginare una scuola che funziona. Il fine di un'impresa è il profitto, il fine di una scuola è il progetto educativo; fatto questo distinguo, perché non possiamo imparare efficienza e produttività?

La riforma: una necessità impellente
La scuola italiana ha bisogno di una riforma, quale che essa sia: questa è la conclusione cui sono giunto. Ha bisogno di una sferzata culturale, ha bisogno di essere costretta a rigenerarsi. Giorno dopo giorno, il clima diventa sempre più impiegatizio: chi lavora nella scuola svolge il suo ruolo con coscienza, con competenza, con onesta, ma senza metterci più nulla di personale. Tutto ciò nella scuola è molto grave ed è ancora più grave se pensiamo che non c'è più ricambio generazionale al suo interno. Io assisto con terrore all'invecchiamento della classe docente italiana: diventa sempre più difficile stabilire un rapporto vero, di relazione tra ragazzi e insegnanti. Gli insegnanti diventano autoreferenziali e con loro lo diventa il sistema.

Finora una riforma non si è fatta per l'ignoranza e per l'ignavia del nostro ambiente politico. Parlo di ignoranza perché i problemi sono stati sempre affrontati con un tono provinciale: chi fa le riforme si basa esclusivamente sui propri ricordi, tanto più che probabilmente la stragrande maggioranza di loro ha frequentato il liceo e dunque non sa niente degli altri istituti, né ha più messo piede in una scuola da ché l'ha lasciata per entrare all'Università. E dico ignoranza perché non si è mai pensato di guardare cosa stava succedendo oltre i confini italiani, in Europa e nel mondo. Questo è il primo difetto che riconosco. Le cose in Italia sono state fatte sempre e solo per via amministrativa. Negli anni Ottanta ci sono state una serie di sperimentazioni e di fatto una riforma, seppure strisciante, è avvenuta. Se non ci fossero stati questi interventi dell'amministrazione saremmo ancora fermi a situazioni fuori da ogni realtà.

Le riforme hanno bisogno di crescere nel paese. Berlinguer aveva istituito un'ipotesi di riforma e aveva chiamato un gruppo di scuole, circa 120, a sperimentarla. Queste scuole per 4 anni hanno provato a mettere in piedi delle modalità diverse di fare scuola, di relazionarsi all'interno della scuola, di organizzare la scuola. Hanno fatto esperienze significative e hanno investito non poche risorse. Ebbene, nessuna di queste scuole è stata invitata a dare il proprio contributo agli Stati Generali. Nessuna è stata inserita tra le scuole comprese nel giro turistico della Moratti.

La colpa che faccio al ministro Moratti è di aver lasciato la scuola pubblica ferma, assolutamente ferma, per almeno un anno, senza progetti, senza nemmeno un'idea, senza consapevolezza di cosa ci sarà da fare l'anno prossimo. Le faccio la colpa di non aver mai motivato né gli insegnanti, né i presidi, di non averci incoraggiati, spronati, sostenuti. Eppure chi viene dal mondo dell'impresa dovrebbe sapere quanto conta essere motivati. Spero di poterglielo dire pubblicamente un giorno, perché, ripeto, agli Stati Generali noi non siamo stati presi in considerazione.

Il diploma è uguale per tutti?
La nostra è una scuola classista. Ha un'idea classista della scuola la maggioranza degli insegnanti, dei presidi, la maggioranza dei genitori. Lei non vedrà mai il figlio di un professore andare in una scuola che non sia un liceo, non vedrà mai i professori della scuola media orientare i figli di un avvocato verso un istituto tecnico, perché continua a permanere, anche nella mente degli insegnanti, questa idea classista della scuola. Del resto, chi sono gli insegnanti? Sono persone che hanno fatto il liceo o le magistrali. Chi sono le persone chiamate a pensare una riforma? Ancora una volta, persone che hanno fatto il liceo classico, o il liceo scientifico.

La prima cosa da fare, per modificare questa situazione, è eliminare il valore legale del titolo di studio e io spero che questo la Moratti riesca a farlo. Nel primo dopoguerra, dare il titolo di ragioniere al figlio dell'operaio era un segnale importante, di promozione sociale. Significava garantire che gli sforzi fatti dal proletariato erano serviti. Oggi la scuola non ha credibilità dal punto di vista della formazione; ci si va perché non si può fare altrimenti e l'iscrizione ad un certo tipo di scuola è soltanto dimostrazione di appartenenza ad una certa classe sociale, il tentativo di perpetuare questa appartenenza, oppure, e mi riferisco ai ceti medi, è il tentativo di elevarsi socialmente. Pensiamo a quali considerazioni fanno le famiglie dei ceti medi quando iscrivono i figli a scuola. Il fatto che il figlio si trovi inserito in un certo ambiente già a scuola, un ambiente che può fornirgli relazioni di un certo tipo, la conoscenza personale con il figlio di questo e di quello è determinante per i genitori.

Pur essendo stato un sostenitore del valore legale del titolo di studio, sono convinto che oggi, per ottenere quello stesso risultato - favorire i più deboli, le classi meno agiate -, il valore legale del titolo di studio debba essere abolito, garantendo la possibilità a tutti, attraverso la certificazione delle competenze, di dimostrare concretamente il proprio valore.
Inoltre, se facessimo un'operazione di questo tipo, dimezzeremmo immediatamente il numero delle scuole private, rimarrebbero cioè solo quelle scuole private che sono effettivamente testimonianza di tradizioni e di valori specifici, ma elimineremmo i diplomifici.

Scuola pubblica: un marchio di qualità
E allora come ne usciamo? Devono cominciare le singole scuole a far crescere un clima di "brand", di marchio, di qualità e con questo andare a porsi sul territorio, sul mercato. Non è possibile che questa operazione inizi dall'esterno. Deve prendere piede dalla base. Quello che conta è, sì, la quantità di conoscenza, ma soprattutto la qualità delle competenze e per dare competenze agli studenti non è importante il tipo di scuola - liceo, istituto tecnico, professionale. Le grandi competenze con sui si segna l'individuo, le grandi abilità che ne fanno una persona capace di muoversi consapevolmente nel mondo, non sono necessariamente frutto di un tipo di scuola piuttosto che di un altro, sono il risultato che certe discipline sono riuscite a creare in lui. Le discipline sono lo strumento per raggiungere una certa qualità dei comportamenti, dei modi di pensare: in questo senso non c'è differenza tra chi studia latino e chi studia diritto, tra chi studia economia e chi studia tedesco.

La qualità di una scuola, allora, non dipende dalla denominazione - liceo, istituto professionale, istituto tecnico -, ma dal fatto che essa risponda o no alle esigenze del territorio in cui è collocata. Che mi chiami liceo o no, la domanda che mi pongo è la stessa: hanno bisogno o no i ragazzi di parlare due lingue, e dico parlare, non conoscere la grammatica? Ciò che mi interessa, come preside, è che mi venga data la possibilità di portare avanti dei progetti che siano in linea con ciò che c'è sul territorio, ma anche, più a lungo termine, con ciò che la scuola pensa possa essere necessario in futuro nel territorio. Solo così le scuole possono arrivare a spendersi bene. Le scuole che hanno provato a darsi uno stile, a darsi una loro organizzazione, le scuole che hanno avuto la forza di contrapporsi a tutto ciò, facendo investimenti pesanti anche nel marketing hanno però avuto successo: gli istituti tecnici in generale in questi ultimi anni hanno avuto una flessione notevole, ma per esempio, noi, lo scorso anno abbiamo dovuto rifiutare settanta iscrizioni, non avevamo più posto.

La scuola come impresa
Bisogna pensare alla scuola come un'impresa: un luogo in cui esistono persone, strutture, risorse finalizzate a uno scopo. Lo scopo non è il profitto, ma la realizzazione di progetti educativi. La scuola deve avere il coraggio di investire in ricerca per pensare nuovi prodotti. La nuova riforma dovrebbe fare questo: spingere le scuole ad accollarsi la responsabilità della progettazione, a investire in progettualità. La scuola deve essere messa anche nelle condizioni di fallire. Deve sapere di correre questo rischio.

Quando dico che concetti come efficienza, produttività, devono entrare nella mentalità della scuola pubblica, intendo dire che dobbiamo stare attenti perché si sta amministrando un bene pubblico, che stiamo "amministrando" le risorse intellettuali di questi studenti.
Se cresce, nella mentalità delle famiglie, l'idea che la scuola è quella cosa che bisogna sopportare perché poi tanto la vita è un'altra cosa, è la fine. Se la scuola diventa una cosa seria, i genitori se ne accorgono.

La mia paura, invece, è che questa spinta verso la privatizzazione della scuola porterà alla creazione di multinazionali della formazione. Le scuole private cominceranno a coordinarsi tra di loro, creeranno dei cartelli, abbatteranno i costi amministrativi, i costi organizzativi e faranno fuori le scuole pubblica. Io credo che molte scuole non statali di Milano l'anno scorso siano passate di proprietà; sarebbe interessante sapere nelle mani di chi sono finite.

L'unico modo per opporsi al cartello è essere concorrenziali, cioè darsi le loro stesse strutture. Le scuole pubbliche, però, devono essere messe in grado di stare sul mercato, sul territorio, con le stesse possibilità della scuola privata. Questa è la battaglia da fare.

Sprechi e efficienza
Gli sprechi sono tantissimi, perché i finanziamenti non vengono legati alla realizzazione di progetti. Come preside non voglio più soldi a caso, voglio più soldi e strumenti per realizzare i miei progetti educativi, e li voglio quando mi servono, non un mese dopo, sei mesi dopo, per un'altra cosa, per replicare l'esistente.
Faccio un esempio, a caso: il progetto "imprese formative simulate". Alcuni studenti della scuola simulavano un'impresa, studenti di un'altra scuola ne simulavano un'altra, una vendeva i suoi prodotti, l'altra li comprava, faceva la fattura e così via: si simulavano situazioni reali, normali. Quando mi sono accorto che le scuole avevano 150 milioni ciascuna per realizzare questo progetto, mi sono detto che con quella cifra si poteva mettere su una vera impresa, altro che simularla... Un gruppo di ragazzi della nostra scuola ha creato una cooperativa: loro ci hanno messo dei soldi, la scuola ci ha messo dei soldi, siamo andati da un notaio e abbiamo regolarizzato il tutto. Possono fallire, ma se non corrono il rischio del fallimento, continuano a pensare al gioco. Penseranno, tanto il prossimo ottobre tutto ricomincia.

È una questione che riguarda anche gli organici. La Moratti ci ha tolto degli insegnanti e ce li ridarà a settembre, ma se io dico: voglio quella persona lì, perché mi serve la sua competenza per realizzare un certo progetto, lei mi dice no, me ne darà poi un'altra, a caso, qualche mese dopo e io sarò costretto ad usarla per un progetto verso il quale non è motivata e per il quale non è preparata. Ma che senso ha?
Se io entro in un consiglio d'istituto e dico agli insegnanti: c'è questo gruppo di studenti bravissimi e poi c'è questo gruppo di poveri immigrati, lei pensa che ci sia qualcuno che vuole andare a insegnare agli immigrati? No. Invece io devo poter dire, tu ci vai, lavori, realizzi un progetto difficile e quando mi porterai dei risultati io non potrò darti lo stesso stipendio che ho dato agli altri, dovrò darti di più, perché ti sei accollato più rischi, hai affrontato un progetto difficile e hai comunque ottenuto dei buoni risultati.

Il rapporto con il mondo del lavoro
L'imprenditore quando incontra la scuola lo fa ponendosi in un rapporto di supponenza, mai di parità, immaginandoci come partner reali. L'imprenditore pensa di poter venire qui a dire come fare, cosa fare, a chiedere senza dare mai nulla. L'altro giorno qui è venuta un'azienda a chiedermi l'elenco dei diplomati e io gli ho chiesto cosa mi davano in cambio. Questa persona mi ha risposto che avrebbero dato un posto di lavoro a qualcuno dei nostri ex studenti.
"Ma lei si rende conto che le sto dando un servizio? Si rende conto di quanto guadagna da questo mio servizio? Quanto lo pagherebbe questo servizio all'esterno?" gli ho risposto.
L'idea che la scuola dia un servizio e che per questo deve essere pagata li ha turbati. La scuola dovrebbe prendere coscienza che sta dando un vero servizio, un servizio concreto, reale, dovrebbe smetterla di sentirsi Cene


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