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La scuola: colpevoli distrazioni

La domanda che dobbiamo farci è dunque politica: se non esista oggi in Italia un’emergenza educativa che dovrebbe costringerci tutti a riflettere e ad agire per ripristinare un principio di autorità nelle nostre scuole

20/04/2018
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Corriere della sera

di Antonio Polito

P erché non reagisce? Perché non lo punisce? Guardando il video girato in quella classe di Lucca, dove uno studente pretende con la violenza il sei politico dal suo docente, e un altro lo prende perfino a testate con un casco, ci siamo tutti fatti questa domanda: perché il professore non esercita la sua autorità?

È da qui che bisogna partire se si vuol trarre una lezione dalla impressionante sequenza di insegnanti intimiditi e maltrattati da «branchi» di studenti, che si filmano e si rilanciano sui social. Ma non per interrogarsi sul coraggio personale di chi viene umiliato. Nessuno, salvo forse chi opera nelle forze dell’ordine, ha un dovere al coraggio fisico sul lavoro.

No, la domanda che dobbiamo farci è come sia potuto accadere che un insegnante si possa sentire così solo, così indifeso, così deprezzato e abbandonato, dalla scuola, dai genitori, dal resto della società, da preferire di lasciar correre, magari sperando di evitare guai peggiori all’istituto e ai suoi stessi alunni. La domanda che dobbiamo farci è dunque politica: se non esista oggi in Italia un’emergenza educativa che dovrebbe costringerci tutti a riflettere e ad agire per ripristinare un principio di autorità nelle nostre scuole.

Qui non si tratta di uscirsene con la solita lamentazione sui bei tempi andati, dare la colpa al ’68 e alzare le spalle come se non ci fosse ormai più niente da fare. Si tratta invece di rimettere in piedi nella nostra era, fatta di smartphone e di Rete, con i giovani come sono fatti oggi, un’idea di libertà che non sia licenza e di autorità che non sia imperio. Anzi, si tratta di far leva proprio sullo spirito critico dei nostri ragazzi, oggi mille volte più stimolabile che in passato, per indirizzarlo verso il bene, piuttosto che verso il male.

Il senso di onnipotenza che pervade un adolescente, e che gli deriva tra l’altro anche da una struttura fisica del cervello ancora in formazione, può condurre infatti a esiti molto diversi.

Sui media finiscono quelli peggiori, vediamo in azione giovani che sembrano aver del tutto smarrito il senso del limite, la linea di confine che passa tra la vita reale e quella virtuale, e che spesso nella vita reale sembrano quasi recitare per il pubblico dei social, ansiosi di costruirsi un’identità di successo, perché oggi si ha successo se si è famosi, qualsiasi sia il motivo della fama.

Ma, diciamoci la verità: da quanto tempo noi, società degli adulti, abbiamo smesso di occuparci di una buona semina, di saperi e di valori, in questi cervelli così fertili, in questi cuori così ricettivi? E, soprattutto, da quanto tempo abbiamo smesso di occuparci della manutenzione non solo delle scuole, ma anche dei docenti: della loro frustrazione, della loro fatica, delle loro solitudini? Nel suo libro, «Ultimo banco», Giovanni Floris riferisce quel che gli ha detto la vicepreside di un istituto del Sud: «Un ragazzo, grazie allo studio, ha l’occasione di dimenticare le mode che ossessionano il gruppo di amici; un bullizzato ha l’occasione di scoprirsi più forte del bullo: la scuola è il mondo in cui il pensiero autorizza l’alunno a crescere libero da stereotipi e costrizioni». È così; o meglio, dovrebbe essere così. Ma noi abbiamo lasciato che i sacerdoti di questo culto della libertà che è l’educazione venissero un po’ alla volta spogliati di ogni rispetto. Lo abbiamo fatto noi famiglie, che scambiamo il pezzo di carta con l’istruzione trasformandoci in sindacalisti dei nostri figli, pronti a ricorrere perfino al Tar contro la valutazione degli insegnanti. Lo ha fatto lo Stato che ha consentito di trasformare i docenti nella categoria di laureati peggio pagata. Lo ha fatto un’austerità di bilancio che ha salvato molte spese inutili ma ha lasciato invecchiare e deperire il nostro corpo docente (in Germania a fine carriera un professore della scuola secondaria guadagna 74.538 euro, in Italia 39.304).

E lo ha fatto una cultura fintamente permissiva, cinica e narcisistica, che spinge a dar ragione ai giovani anche quando hanno torto: per pavidità, per convenienza, perché i ragazzi sono oggi generosi consumatori, divoratori di mode, e modelli per adultescenti che non vogliono invecchiare mai, e per questo vengono vezzeggiati anche nei loro peggiori difetti.

Ieri il Corriere raccontava di che cosa è successo in un istituto milanese nel quale il preside ha avuto il coraggio di punire un gruppo di studenti che avevano diffuso sui social le immagini intime di una ragazzina, obbligandoli a una corvée di pulizie nella scuola. Ebbene, molti genitori hanno preso le parti dei figli: punizione eccessiva, quasi una gogna, in fin dei conti la colpa è della ragazza che mandava in giro le sue foto.

Contro questo demone del giustificazionismo, questa paura della responsabilità etica, normativa e talvolta perfino punitiva che i veri educatori devono invece assolvere, bisogna combattere una guerra comune. Il cui esito non è certo meno importante, per le sorti della comunità nazionale, di quello della crisi di governo.


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