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La scuola, antidoto alla dittatura dell’utilitarismo

Pubblichiamo la lectio magistralis che Nuccio Ordine terrà il 19 novembre all’inaugurazione del nuovo anno accademico della Sissa di Trieste

19/11/2019
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Corriere della sera

«La scuola dovrebbe sempre avere come suo fine che i giovani ne escano con personalità armoniose, non ridotti a specialisti. Questo, secondo me, è vero in certa misura anche per le scuole tecniche, i cui studenti si dedicheranno a una ben determinata professione. Lo sviluppo dell’attitudine generale a pensare e a giudicare indipendentemente, dovrebbe sempre essere al primo posto, e non l’acquisizione di conoscenze specializzate»: in queste parole di Albert Einstein emergono le stesse preoccupazioni che negli ultimi decenni sono al centro di molte riflessioni critiche avanzate da scienziati e umanisti sul futuro della scuola, dell’università e della stessa ricerca scientifica sempre più orientate verso la stella polare del «mercato».

Da oltre due decenni apro, in ottobre, la lezione inaugurale del mio corso nell’Università della Calabria con una domanda provocatoria rivolta agli studenti che iniziano a frequentare il primo anno: cosa siete venuti a fare in questo Ateneo? Con quale obiettivo seguirete i corsi?

Gli studenti – meravigliati da un quesito così inusuale – rispondono quasi tutti alla stessa maniera: «ci siamo iscritti all’università per conseguire una laurea». Io credo, invece, che il compito della scuola e dell’università sia proprio quello di far capire ai nostri allievi che non ci si iscrive a un liceo per prendere un diploma e che non si frequenta un’università per conseguire una laurea. Il liceo e l’università sono occasioni che la società ci offre per cercare di diventare migliori. Poi, coloro che riusciranno a essere migliori – che saranno in grado di studiare per conquistare un sapere critico, per diventare donne e uomini liberi, capaci di ragionare autonomamente con la propria testa – saranno anche in grado di superare brillantemente gli esami e ottenere una laurea con il massimo dei voti.

Ma non si può attribuire agli studenti la colpa di iscriversi a scuola e all’università con il solo obiettivo di conseguire un titolo di studio: vivono in un contesto sociale in cui ogni scelta, ogni gesto, ogni parola deve rispondere a un «profitto» personale, a una logica utilitaristica che impone un guadagno materiale. L’idea di coltivare una passione in nome di un piacere disinteressato non trova nella nostra società un fertile terreno di coltura.

È difficile guardare con interesse al «gratuito» in un mondo sempre più dominato dalla dittatura della massimizzazione del profitto. Ma non vorrei essere frainteso: il profitto è legittimo, quando diventa un «mezzo» e non un «fine in sé». Il profitto per il profitto, infatti, libero da qualsiasi vincolo sociale ed etico, per la sua stessa natura predatoria, anziché diventare un fattore di crescita dell’umanità può, al contrario, trasformarsi in uno strumento di distruzione della civiltà e di desertificazione dello spirito. Una pericolosa leva per cancellare, come diceva Hannah Arendt, «il diritto di avere diritti».

Ogni anno leggo ai miei allievi una stupenda poesia di Costantino Kavafis, dedicata al mito di Ulisse, per far capire loro che non conta tanto la meta (ritornare ad Itaca), ma il viaggio che dobbiamo compiere per arrivarci: «Tienila sempre in mente, Itaca./ La tua meta è approdare là./ Ma non far fretta al tuo viaggio./ Meglio che duri molti anni;/ e che ormai vecchio attracchi all’isola,/ ricco di ciò che guadagnasti per la via,/ senza aspettarti da Itaca ricchezze.// Itaca ti ha donato il bel viaggio./ Non saresti partito senza di lei./ Nulla di più ha da darti.// E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso./ Sei diventato così esperto e saggio,/ e avrai capito che vuol dire Itaca».

Sacrificare a una meta il valore in sé dell’esperienza stessa dell’avventura della conoscenza, impoverisce il nostro percorso. Come si fa a non capire che obbligare giovanissimi studenti a scegliere una professione già prima di iscriversi alle scuole superiori, in nome di programmi scolastici che inseguono il mercato, finirebbe per uccidere qualsiasi possibilità di incoraggiarli a coltivare liberamente i loro interessi e la loro curiositas? Come si fa a non capire che la velocità, oggi considerata come valore essenziale, non facilita l’apprendimento, la riflessione, la comprensione? Al contrario: la conoscenza, scientifica o umanistica poco importa, richiede «lentezza» («Filologia, infatti, è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un’arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento», Nietzsche) e si fonda proprio sul «perder tempo» («La più importante regola dell’educazione non è di guadagnare tempo, ma di perderne», Rousseau).

Mentre in un Paese capitalista e tecnologicamente avanzato come la Corea del Sud si intensificano i finanziamenti per le discipline umanistiche – considerate una fonte straordinaria per coltivare la fantasia e l’immaginazione che sono alla base di ogni forma di creatività – l’Europa, dimenticando le sue stesse radici culturali, sta progressivamente uccidendo lo studio delle lingue antiche, della filosofia, della letteratura, della musica e dell’arte in generale. Oggi si pensa, a torto, che la scuola moderna la facciano i computer, le lavagne connesse e i videogiochi interattivi, perdendo di vista il ruolo fondamentale del buon professore.

Per capire la vera essenza dell’insegnamento bisognerebbe rileggere con attenzione la commovente lettera che Albert Camus – poche settimane dopo la vittoria del premio Nobel (19 novembre 1957) – indirizza al suo maestro di Algeri, Louis Germain: «Caro signor Germain, ho aspettato che si spegnesse il baccano che mi ha circondato in tutti questi giorni, prima di venire a parlarle con tutto il cuore. Mi hanno fatto un onore davvero troppo grande che non ho né cercato, né sollecitato. Ma quando mi è giunta la notizia, il mio primo pensiero, dopo che per mia madre, è stato per lei. Senza di lei, senza quella mano affettuosa che lei tese a quel bambino povero che io ero, senza il suo insegnamento e il suo esempio, non ci sarebbe stato nulla di tutto questo».

Oggi più che mai il compito di un buon professore è proprio quello di far capire ai suoi studenti che la letteratura e le scienze non si studiano per prendere un voto, o solo per esercitare una professione, ma innanzitutto perché ci aiutano a vivere e a conoscere.

Non a caso assistiamo da decenni al progressivo depotenziamento delle discipline umanistiche che, su scala planetaria, vengono considerate «inutili», vengono marginalizzate non solo nei programmi di insegnamento ma soprattutto nelle voci dei bilanci statali e nelle risorse di enti privati e di fondazioni. Perché impegnare denaro in un ambito condannato a non produrre profitto? Perché destinare fondi a saperi che non apportano una rapida e tangibile utilità economica?

A queste assurde domande, aveva già risposto egregiamente Aristotele in un passo della sua Metafisica. A chi gli chiedeva «a cosa serve la filosofia» aveva replicato che la filosofia «non serve», perché non è «servile», perché non è al servizio di nessuno, perché è una scienza che esiste di per sé e che insegna la strada per abbracciare la libertà: così come un uomo libero «vive per sé e non per un altro».

Ma l’interesse rivolto unicamente a ciò che serve, è solo un aspetto di un fenomeno molto più sottilmente devastante che sta minando alla base la funzione stessa della ricerca e dell’insegnamento nelle scuole e nelle università. Riforme e disegni di legge guardano sempre più al mercato e ai sistemi di valutazione che misurano «risultati» ed efficienza. Le regole vengono dettate da Agenzie internazionali (Banca Mondiale, Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico, Organizzazione mondiale del commercio!), composte anche da organismi che hanno interessi economici ben precisi. Il rischio è sotto gli occhi di tutti: gran parte di professori e ricercatori sono incoraggiati a scalare classifiche. Così la valutazione (che in sé va considerata legittima e necessaria) non si limita a misurare, ma orienta la futura direzione della ricerca e dell’istruzione. Alla base di ogni scelta c’è sempre la priorità del «business»: ottenere finanziamenti, occupare le vette delle graduatorie, ricevere attestati di eccellenza. Dalle scuole elementari ai grandi laboratori, profitto e mercato sono ormai le parole chiave.

I risultati sono più che evidenti. Chiedere a studenti di dieci anni – è successo nel maggio scorso con i test Invalsi – «avrò soldi per vivere» o «riuscirò a comprare le cose che voglio» è fortemente diseducativo. Oggi si scandalizzano in pochi. Ma far credere ai giovani che si studia soprattutto per guadagnare è un crimine che pregiudica il futuro di una nazione e la libertà della ricerca scientifica e umanistica.

Ma c’è di più. Nel luglio dello scorso anno, in prima pagina, «Le Monde» titolava: «Allarme mondiale sulla falsa scienza, questo fiorente business». Tre lunghi articoli all’interno e un editoriale, per denunciare la diffusione di riviste scientifiche fasulle, nate per gonfiare i curricula, rispondendo ai criteri imposti dalle diverse agenzie valutative: la velocità, la quantità e l’impatto (numero di citazioni e altri meccanismi studiati dalla scientometria). I dati, a questo proposito, parlano chiaro: se nel 2004 gli articoli ritenuti «dubbi» erano 1894, nel 2015 ne sono stati registrati 59.433.

Umanisti e scienziati, insomma, debbono fare fronte comune contro le derive mercantili. Del resto, già nel 1969 un grande fisico della Cornell University, Robert Wilson, nel rispondere alle brutali domande del senatore democratico John Pastore sull’utilità del «Fermi National Accelerator Laboratory» da lui diretto, rivendicava l’importanza della ricerca e della conoscenza libera da qualsiasi vincolo utilitaristico. Alle questioni sollevate (le ricerche serviranno a proteggere militarmente il nostro Paese?) nel corso dell’incontro con il Comitato per l’Energia Atomica del Congresso degli Stati Uniti, Wilson risponde che il suo Fermilab non servirà a difendere gli Usa, ma a far sì che gli Usa siano degni di essere difesi: ««]Il mio progetto] – aveva dichiarato – ha a che fare con domande come queste: siamo bravi pittori, bravi scultori, grandi poeti? Intendo tutto ciò che veneriamo e onoriamo nel nostro Paese e per il quale siamo patrioti. In questo senso, la nuova conoscenza ha molto a che fare con l’onore e il Paese, ma non ha relazioni dirette con la difesa del nostro Paese, tranne perché aiuta a rendere il nostro Paese più degno di essere difeso».

Ora, all’interno di un contesto così difficile fondato esclusivamente sulla necessità di pesare e misurare ogni cosa in base a criteri che privilegiano la quantità, proprio quei saperi ritenuti ingiustamente «inutili» (come la letteratura, la filosofia, l’arte, la musica, la ricerca scientifica di base) possono invece assumere una funzione fondamentale: già il loro essere immuni da qualsiasi aspirazione al profitto potrebbe porsi, di per sé, come forma di resistenza agli egoismi del presente, come antidoto alla dittatura dell’utilitarismo che è arrivata perfino a corrompere le nostre relazioni sociali e i nostri affetti più intimi.

Nonostante queste enormi difficoltà su cui mi sono soffermato, continuo a pensare che la cultura possa essere un antidoto contro la logica vincente dell’utilitarismo, una forma di resistenza alla dittatura del profitto e degli egoismi. E lo penso per almeno tre ragioni.

La prima: perché con i soldi tutto si può comprare tranne il sapere. Ogni cosa ha il suo prezzo. Ma non la conoscenza: il prezzo da pagare per conoscere è di ben altra natura. Neanche un assegno in bianco potrà consentirci di acquisire meccanicamente ciò che è esclusivo frutto di uno sforzo individuale e di una inesauribile passione. Nessuno, insomma, potrà compiere al nostro posto quel faticoso percorso che ci permetterà di imparare. Senza grandi motivazioni interiori, la più prestigiosa laurea acquistata con i soldi non apporterà nessuna vera conoscenza e non favorirà nessuna autentica metamorfosi dello spirito.

La seconda ragione mostra come solo il sapere possa mettere in crisi le leggi del mercato. Qualsiasi scambio di natura commerciale, infatti, prevede inevitabilmente una perdita e un acquisto. Se io compro una camicia, chi mi vende la camicia riceve i miei soldi e perde la camicia, mentre io perdo i miei soldi e ricevo la camicia. Ma nell’universo dell’insegnamento ogni giorno si compie un piccolo miracolo in un’aula austera di uno sperduto villaggio o in un anfiteatro di una ricca città: io posso insegnare a uno studente la teoria della relatività o leggere assieme a lui una pagina della Commedia di Dante senza perdere le mie conoscenze. L’insegnamento dà vita a un processo virtuoso in cui si arricchisce non solo chi riceve ma anche chi dona (un vero professore sa bene che lo sguardo perduto di uno studente o una sua richiesta di chiarimenti possono costituire sempre una preziosa occasione per acquisire qualcosa di nuovo).

La terza, ed ultima, ragione si fonda su un bellissimo esempio universalmente attribuito al grande drammaturgo irlandese George Bernard Shaw. Immaginiamo due studenti della Sissa di Trieste uscire di casa ciascuno con una mela e, in una di queste aule, scambiarsi le mele: ciascuno ritornerà a casa con una sola mela. Proviamo a cambiare, invece, la prospettiva. Immaginiamo due studenti della Sissa di Trieste uscire di casa ciascuno con un’idea e, in una di queste aule, scambiarsi le idee: entrambi ritorneranno a casa con due idee, perché la cultura non impoverisce mai. La cultura, in un circolo virtuoso, arricchisce sempre tutti i suoi protagonisti.

Eppure George Steiner – grande difensore dei classici e dei valori umanistici – ha ricordato che, nello stesso tempo, in maniera drammatica «l’alta cultura e la correttezza illuminata non hanno rappresentato un’efficace barriera alla barbarie del totalitarismo». Più volte, purtroppo, abbiamo visto pensatori e artisti mostrarsi indifferenti a scelte efferate o, addirittura, complici di dittatori e regimi che le mettevano in atto. È vero. «La cultura, come l’amore, – ha osservato giustamente Rob Riemen – non ha il potere di costringere. Non offre garanzie. Ciò nonostante, l’unica possibilità di conquistare e difendere la nostra dignità di uomini ce la offrono proprio la cultura e un’educazione libera». Ecco perché credo che, in ogni caso, sia meglio continuare a batterci pensando che i classici e l’insegnamento, che la ricerca scientifica di base e lo sviluppo dell’inutile, possano comunque aiutarci a resistere, a tenere accesa la speranza, a coltivare un’umanità più umana e solidale. Perché, come ci aveva suggerito Albert Einstein sul «New York Times», «solo una vita vissuta per gli altri è una vita degna di essere vissuta».


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